lunedì 8 febbraio 2010

LA PERVERSA CULTURA DELL'APERICENA



Capita da qualche anno a questa parte che qualcuno ogni tanto se ne esca con un:"Andiamo a fare apericena?".
Una volta si chiamava aperitivo, senza tante pretese, un bicchiere di vino e quattro tartine giusto per non bere a stomaco vuoto.
Poi accade che c'è chi si rimpinza di salatini al posto di cenare e lì nasce l'idea: fare pagare l'aperitivo un po' di più e offrire cibo più sostanzioso.
Si arriva però ad un masochismo inaudito e limiti inumani: un apericena costa oggi dai 6 ai 10 euro, poco meno di una pizza, ed è una lotta tra il gestore del locale che cerca di spendere il meno possibile e il cliente che ha pagato e vuole saziarsi, anzi, possibilmente vuole mangiare il triplo di quello che ha speso.

La prima regola, per il proprietario, è non servire bevande dissetanti; bandite birra e coca-cola, il vino è mezzo bicchiere scarso mentre i cocktail più gettonati sono il mojito con interi cespugli di menta e un tappeto di zucchero di canna (per rendere ancora più difficoltoso abbeverarsi a mezzo cannuccia) e il daiquiri frozen, una sorta di frullato alcolico con una quantità di zucchero e sciroppo da far venire il diabete solo a guardarlo.
Diffidare altresì dall'analcolico alla frutta della casa, che di solito è una brodaglia spessa costituita da una tale varietà di frutta (e zucchero) da acquistare quel sapore indefinito che avevano le caramelle tuttifrutti della nostra infanzia: buonissime, non si discute, ma totalmente inadatte ad accompagnare un pasto.
Esistono anche perversioni peggiori come questa (vi giuro che esiste e lascio a voi ogni giudizio): zucchero di canna, fragola e ananas frullati, succo d'ananas, gelato alla crema e pezzi di cioccolato.

Una volta ottenuto da bere si passa al cibo e la situazione non migliora di certo.
Anche qui la volontà del gestore del locale di far mangiare poco si esplica con la disponibilità di piatti di plastica lillipuziani, dello spessore di pochi micron e del diametro di una decina di centimetri massimo.
La vera abilità dell'apericena consiste appunto nel riuscire a introdurre in corpo cibo sufficiente a saziarsi nonostante le molteplici avversità.
Il tutto richiede una discreta abilità geometrica, senso dell'equilibrio e mano ferma. Perchè??
Ma per riempire i minuscoli piattini fino all'inverosimile, naturalmente!
Certo, in linea di principio nessuno vieta di riempire il piatto con una sola pietanza, consumarla tranquillamente, alzarsi, tornare al banco, servirsi di nuovo e proseguire così fino alla fine dei tempi, ma innumerevoli circostanze cospirano contro tale soluzione:

- di solito c'è una tale ressa accanto al cibo che l'idea di affrontare ogni volta una simile bolgia fa passare la fame

- il cibo sparisce a una velocità supersonica: basta dimenticarsi il pane, accorgersene e tornare indietro che quel cesto gigantesco pieno di rosette e sfilatini ormai non contiene che un misero grissino... neanche fosse passato un esercito di termiti fameliche.

- infine si presume che l'aperitivo sia un'occasione sociale, per stare con gli amici e scambiare due chiacchiere, se ogni tre minuti qualcuno si alza per riempire il piatto è impossibile mantenere una conversazione di qualsiasi tipo.

Stanti così le cose la maggior parte delle persone opta per riempire all'inverosimile uno o due piatti e farseli bastare per la serata.
Ci si avvicina alla zona cibo, dove una muraglia di persone impedisce la maggior parte dei movimenti e, armati di un micro-piatto di plastica, si cerca di servirsi nonostante la gente pressi da dietro e dai lati.
Le difficoltà ovviamente non sono finite, perchè in genere i locali che offrono l'apericena sono posti dove si va a bere e ballare, non più bar illuminati, quindi i tavoli delle cibarie si trovano sempre avvolti da una misteriosa penombra che fa molto atmosfera ma rende di fatto impossibile il riconoscimento dei piatti.
Se a ciò si aggiunge il fatto che la maggior parte delle pietanze è servito sotto forma di dadini, cubetti, striscioline e affini ne risulta l'impossibilità più completa di discernere la verza coi gamberi dai peperoni con i fagioli o dall'insalata di cipolla o differenziare la farinata dalla torta di carote al miele.

Accade dunque che, complici le ridicole dimensioni del piatto, l'oscurità dell'ambiente, la folla e tutto il resto, uno torni al proprio tavolo con un mano una piramide di cibo non identificato e tutto mescolato insieme.
Il sugo della pasta al ragù si fonde con quello del riso al tonno, ma i peperoni con i fagioli sovrastano il sapore di entrambi e sono ricoperti di grani del cous-cous alle verdure. L'insalata di gamberi e cozze è troppo vicina alla salsiccia con le patate e il sugo della polenta ha inzuppato tutte le crocchette dal contenuto misterioso. Il tutto è sormontato da quello che sembrava proprio pane integrale, ma si scopre con disappunto un ciambellone al cioccolato.
Se pensate che questa descrizione possa far gelare il sangue anche ai più indomiti mangiatori state dimenticando l'accompagnamento: quella brodaglia variamente alcolica e sempre dolcissima che si presume vi debba aiutare a mandar giù tutto questo cibo.

La conversazione tra amici è continuamente interrotta da dialoghi tipo:
"Cos'è quello?"
"Mah, non l'ho ancora capito però sa di pesce"
"Non sarà il salmone della pasta che ci è finito sopra?"
"Può darsi, ma potrebbero anche essere le cozze..."

oppure

"Che schifo! l'hot dog mi si è tutto inzuppato dell'olio del risotto alla pescatora!"
"Quello è niente... vuoi assaggiare la torta al cioccolato ai peperoni?"

e sperate di non essere allergici a nulla, o sono dolori!

Alla fine si ingurgita una massa variegata di sostanze al gusto tipico di "apericena" accompagnato degnamente da un frullato tuttigusti con la percezione sensoriale, immagino, più vicina possibile al genericissimo concetto di "cibo".

"Cos'hai mangiato questa sera?"
"Ho fatto apericena"
e una sola parola è sufficiente a giustificare lo sguardo sofferente del meschino che sente una massa di cemento sullo stomaco, completamente indifferente all'azione dei succhi gastrici e necessitante dell'ausilio di qualche altro potentissimo acido per essere ricondotto alla ragione.

Ma la settimana successiva, appena un amico propone un nuovo locale è di nuovo pronto a ricominciare... se non è masochismo questo!

lunedì 1 febbraio 2010

QUEL CHE CONTA E' LA SALUTE


Lo confesso, talvolta quando vedo l'amabile signore in scarpe di vernice che fa capolino nelle nostre case e si autodefinisce "il jackpot più alto del mondo" provo la tentazione di entrare dal tabaccaio e investire un euro per tentare la fortuna, non sia mai che toccasse proprio a me.
Deve essere il ragionamento che fanno tutti, una probabilità, per quanto piccola, esiste, quindi vale la pena di tentare.
Certo, nessuna delle cosiddette "leggi" dell'universo è perentoria, esiste sempre la seppur minima possibilità che un sasso vi torni in mano dopo che l'avete lanciato, figuriamoci quella di vincere 130 milioni di euro!
Sarà deformazione professionale, sarà amore per la matematica, mi viene spontaneo fare due calcoli:
la puntata minima dell'enalotto è 1 euro, che assicura due combinazioni.
la probabilità di azzeccare 6 numeri su 6 estratti tra 90 è la seguente

1/90 x 1/89 x 1/88 x 1/87 x 1/86 x 1/85

pari a circa 2,1 x 10^-12
ma noi giochiamo 2 combinazioni quindi
4,2 x 10^-12

pari a circa una possibilità su 250 miliardi.

Significa che per assicurarsi al 100% la vincita di 130 milioni bisognerebbe spendere 250 miliardi...
o che giocando 130 milioni di euro in schedine con combinazioni diverse si avrebbe solo una possibilità su 520 di riportarseli a casa.

D'altra parte, anche se come possibilità è irrisoria, quell'unica su 250 miliardi esiste e ciascuno di noi ha la possibilità, rinunciando a un caffè, di vincere.

Qui entra la deformazione professionale che mi costringe a confrontare questa possibilità con le altre che ciascuno di noi ha nella vita.

La Distrofia Muscolare di Duchenne, una malattia genetica, affligge 1:5000 nati vivi e comporta una progressiva perdita di funzione dei muscoli con inabilità a correre, a camminare e alla fine a respirare fino alla morte.
è circa 5 milioni di volte più probabile di una vincita all'enalotto

ma prendiamo una malattia più rara, la Malattia di Gaucher, un disordine metabolico che comporta l'accumulo a livello cerebrale di galattosidi con emorragie, atrofia muscolare, strabismo ed eventualmente convulsioni, demenza e atassia.
incidenza: 1/200.000
solo 1.250.000 volte più probabile di vincere all'enalotto.

potrei continuare per anni, ma immaginate che la probabilità di nascere con una qualunque delle migliaia di malattie congenite esistenti è la somma delle probabilità di ogni singola malattia... quindi ancora più alta.

Si suppone però che siamo tutti adulti sani, la fortuna al momento della nascita ha girato dalla nostra parte, quindi escludiamo le malattie congenite.
prendiamo invece quelle acquisite.

Morbo di Basedow o ipertiroidismo 1/700 (affaticamento, iperattività, depressione, sudorazione, palpitazioni e aritmie, infertilità, calo del desiderio, nausea, vomito, diarrea).
Non mortale, solo 357 milioni di volte più probabile della vincita all'enalotto.

Leucemia Linfoide Cronica 1/100.000 (2,5 milioni più probabile)

Feocromocitoma, tumore benigno del surrene che causa un aumento dell'adrenalina con picchi di ipertensione tali da farvi scoppiare le arterie del cervello. E' considerato rarissimo, 1/100.000 l'anno. Ogni anno è 2,5 milioni di volte più probabile sviluppare un feocromocitoma che vincere all'enalotto. Ma se giocate tutti i giorni allora è solo 14.600 volte più probabile.

prendiamo infine una malattia ridicolmente rara, l'emogobinuria parossistica notturna caratterizzata da anemia, emissione di urine scure al mattino, dolori ossei e articolari ed eventuali trombosi (anche al cervello).
2 casi per milione di abitante.
500.000 volte più probabile di una vincita al superenalotto.

Ecco perchè, ora, quando vedo il signore in vestito gessato e scarpe di vernice di cui sopra il mio primo impulso è scappare.