venerdì 22 ottobre 2010

SE ESISTE UN INFERNO E' FATTO COME IL CACAO. E IO SONO SPACCIATA

Un ringraziamento particolare e parte del copiright per questo post vanno a Giovanni Comoglio

Se esiste un inferno è fatto come il Cacao. E io sono spacciata
Al tornar della mente che si chiuse
dinanzi alla pietà d’i due cognati
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga e come che io guati

Dante, Inferno, VI 1-6

So che ho già scritto a riguardo dell’abominevole usanza dell’apericena, ma quanto detto è troppo poco per descrivere l’abiezione assoluta del cacao. All’apparenza il cibo è ottimo e abbondante, i cocktail sono meno marmellatosi del solito e il posto è carino. Eppure è un’esperienza terribile. 

Il Cacao, lo spiego a chi non ha mai avuto il piacere di stazionarvi, è un grazioso locale immerso nel verde del parco del Valentino, tutto terrazze, scalinate e alberi, foggiati nel complesso a guisa di cono di dantesca memoria. È un inferno sì, ma molto a la page, almeno da vuoto.
Solitamente il locale fa da discoteca, e una pure abbastanza esigente in termini di abbigliamento consono e portafogli guarnito. Due giorni a settimana (martedì e giovedì per chi vuole sperimentare) diventa però serata “apericena ingresso libero consumazione facoltativa 10 euro”. 

Alle 8 una folla di proporzioni bibliche attende che si aprano i cancelli. La coda è all’italiana: ogni gruppo che arriva si piazza a fianco ai precedenti tentando di scavalcare il maggior numero di persone possibile.
Alle 9 due buttafuori iniziano a selezionare con criteri imperscrutabili chi può entrare e chi no. Spezzano gruppi a metà mentre l’infinita fiumana di gente viene inghiottita dall’imbuto.
Gli amici che si separano a questo punto possono anche dirsi addio, difficilmente si incontreranno nel corso della serata. 

Varcati i cancelli si ha per un istante la visione complessiva di quanto accade all’interno del locale ed è a metà tra il gaio disordine del paese dei balocchi di Pinocchio e la bolgia di anime disperate della prima cantica di Dante con un pizzico di invasione delle cavallette e piaghe d’Egitto. Un alveare umano, un brulichio di gente che si affaccenda attorno a dei gazebo pieni di cibo, spostandosi in massa verso quelli più forniti e abbandonando con aria desolata quelli ormai vuoti. Tutti perfettamente coordinati, guidati dal più primitivo degli istinti: la fame. 

La lucidità della visione dura un momento, appena varcata la soglia si viene risucchiati e si diventa parte integrante della folla affamata. Paragonati ad altri apericena alcuni dettagli possono stupire: piatti e posate non sono di plastica ma rispettivamente di ceramica e metallo, i carrelli del cibo sono ben illuminati ed è quasi sempre intellegibile la composizione degli alimenti.

Ma poi ci sono gli avventori. 

Chi entra, almeno inizialmente, tenta di comportarsi in modo urbano, ma presto si ritrova circondato di buzzurri in camicia firmata e capello plastico che, armati di cucchiaio di portata, forchetta personale o delle mani, fanno man bassa di qualsiasi cosa capiti loro a tiro reggendo con la mano libera decine di piatti con tecnica da equilibristi di rara fama (e fame).
Il cibo non pare mai abbastanza per sfamare il carnaio, pentoloni da decine di chili di pasta vengono svuotati in pochi secondi, camerieri indaffarati trasportano da un capo all’altro della sala vassoi giganteschi seguiti perennemente da uno stuolo di disperati in maglietta di Armani.
I più audaci giungono a rubare il cibo al volo con le mani durante il transito del vassoio, consci che non riusciranno a seguirne l’intero tragitto senza essere travolti da altri tapini intenti nella stessa impresa. 

Ben presto ci si rende conto che dare un ordine sensato alla propria cena tipo antipasto-primo-secondo-frutta-dolce è non solo utopistico ma proprio impossibile e ci si arrangia mangiando quello che si trova, e pazienza se si tratta di prosciutto, fagioli, anguria, budino al cioccolato, pasta all’amatriciana e fritto misto… in quest’ordine.
L’unica regola è quella dell’hic et nunc, chi è restio ad assaggiare l’ananas prima degli spiedini potrebbe non averne più l’occasione al termine della cena. Questo scatena risse ed accaparramenti: gli amici più organizzati si scelgono un luogo di ritrovo e si sparpagliano ai quattro angoli della sala, tornando di tanto in tanto alla base, ciascuno con il frutto della propria razzia da condividere con gli altri. T

aluni scavalcano la coda senza troppi problemi. Accade così che mentre la truccatissima, zeppatissima, tiratissima e firmatissima sedicenne davanti a te si sta copiosamente rifornendo di peperoni fritti, sbuchi da sotto la tua ascella un piatto vuoto accompagnato dall’implorazione stridula “Dacci un po’ di frittura anche pe’zia Concetta!”.
Girandoti appuri che la zia in questione è una sessantenne bassa e sgraziata, che si pavoneggia in un vestito fantasia-tende-da-cucina neanche fosse a una sfilata di Valentino. Così mentre la sedicenne marchiata Dolce e Gabbana dal fondotinta alle mutande riempie senza scomporsi quattro piatti di salsicce, peperoni e olive ascolane per la sua numerosa famiglia, ti giri osservando per la prima volta gli avventori e non il cibo.

Ti rendi conto che palesemente i buttafuori selezionano a caso perchè in mezzo ad adolescenti emo e fighetti, studenti universitari ubriachi, trentenni rampanti che ridono sguaiatamente spuntano tentando di mimetizzarzi (piuttosto male a onor del vero) cinquantenni con pancia da birra in bermuda e infradito, zie concette in mise ancora più improbabili, allegre famigliole con l’aria di essere a un pic nic. I
l richiamo animale del cibo gratuito. Già, perché naturalmente quasi tutti tentano di evitare la “consumazione facoltativa”, chi nascondendo camelback sotto la giacca, chi imboscando mignon di vodka nelle borsette di Gucci.
Ovviamente i proprietari del locale sono di diverso avviso e, poco propensi a sfamare le masse di tasca propria, cercano in ogni modo di indurre la clientela a consumare. Il risotto ai frutti di mare sembra cotto nell’Adriatico tanto è salato, peperoncini interi saltano fuori un po’ dappertutto dal fritto misto all’insalata russa, dagli spiedini alla macedonia.

Qualcuno in preda alla disperazione tenta di ottenere un po’ d’acqua del rubinetto facendo gli occhi dolci al cameriere, ma i più stoici resistono o come me, sazi e disgustati dalla folla e dal frastuono a mezzanotte abbandonano il campo, lasciandosi dietro pile di piatti usati, polpette sbocconcellate, pavimento pieno di sugo e di coca-cola, vassoi vuoti e briciole ovunque e vanno alla ricerca di una fresca ed economica birra agli imbarchini.