lunedì 24 marzo 2014

arte e malattie

http://www.lastampa.it/2010/01/05/cultura/arte/il-colesterolo-di-monna-lisa-JOvX7rvYuH798yOnWAKvMO/pagina.html

La Gioconda? Probabilmente aveva il colesterolo alto e i trigliceridi alle stelle. E già: se il suo sorriso enigmatico ha ispirato fiumi di inchiostro, se per lei si sono scomodati critici, storici, psicologi, studiosi di esoterismo, pochi si sono soffermati sullo «xantelasma» nell’incavo dell’occhio sinistro, un accumulo di adipe sottocutaneo, e sul lipoma che ingrossa la mano in primo piano, sintomi entrambi di un eccesso di grasso. E se la Madonna del Parto di Piero della Francesca è palesemente incinta, meno esplorato è il gozzo sul suo collo, malattia endemica tra i contadini del Medioevo che bevevano acqua piovana raccolta nelle cisterne. 

Capolavori con l’artrite, con la scoliosi, con la tiroide ingrossata, con i calcoli renali, con il tumore. Capolavori passati al setaccio dagli iconodiagnosti, gli specialisti di una nuova disciplina: medici che si divertono a cercare i sintomi delle malattie su madonne estatiche ed eroi del mito, su putti dormienti e nobiluomini in posa per il ritratto. Un divertissement diventato branca di studi, che vede tra i pionieri in Italia Vito Franco, docente di Anatomia patologica all’Università di Palermo. L’unico ad aver parlato degli acciacchi segreti di personaggi dell’arte all’ultimo Congresso della Società europea di Anatomia patologica. E autore di una ricerca che passa in rassegna un centinaio di opere più o meno famose, dalle sculture egizie ai dipinti contemporanei, raggruppate per tipo di malattia: da quelle osteo-articolari ai disturbi endocrini, dalle malformazioni alle patologie neurologiche, dai problemi di metabolismo a quelli della pelle. 

E l’effetto è sorprendente. Anche i più celebri pezzi sono in grado di rivelare aspetti inediti. «La malattia sta dentro al corpo - dice Vito Franco - non è una dimensione metafisica o sovrannaturale. E i personaggi raffigurati svelano la loro fisicità, ci raccontano della loro umanità vulnerabile indipendentemente dalla consapevolezza del loro autore». Sta tutto nel labile confine tra coscienza e incoscienza dell’artista il gioco più interessante dell’iconodiagnostica. Nell’arte moderna e contemporanea, volti emaciati e corpi sofferti sono strumento espressivo o simbolico. Ma spesso, invece, le malattie dei personaggi restano segrete al loro stesso creatore, che se ne fa portatore inavvertitamente. 

Materiale prezioso per coloro che di malati in carne e ossa ne hanno visitato tanti. E che adesso si lanciano nella sfida di fare una diagnosi senza interrogare il paziente, richiedere analisi del sangue o auscultare il torace. Ecco allora, per esempio, che sull’«Amorino dormiente» di Caravaggio, custodito a Palazzo Pitti, si è scatenata una diatriba scientifica: ha l’artrite reumatoide giovanile o è rachitico? E se il botticelliano «Ritratto di giovane» della National Gallery di Washington emana un’eleganza quasi femminea, di sicuro è malato di aracnodattilia, cioè ha le dita troppo lunghe e sottili, come le zampe di un ragno. La stessa patologia di cui soffre la Madonna del collo lungo del Parmigianino esposta agli Uffizi, antesignana delle donne di Modigliani. La quale, a scorrere il lavoro di Vito Franco, forse era affetta dalla sindrome di Marfan, un disturbo ereditario che colpisce le ossa, i legamenti, gli occhi, il sistema cardiovascolare. 

Nella Scuola di Atene, il dipinto celeberrimo di Raffaello dei Musei Vaticani, il malato è Michelangelo, ritratto in basso a sinistra, seduto sulle scale, curvo, con le ginocchia gonfie e tumefatte. 

«Sembrano indicare - dice Franco - un eccesso di acido urico, tipico di chi soffre di calcolosi renale. E d’altronde lui per mesi e mesi si nutrì solo di pane e vino, lavorando giorno e notte al suo capolavoro, la Cappella Sistina». E che dire del «Las Meninas» di Velazquez custodito al Prado? Ebbene, la famiglia di Filippo IV, oltre a essere una miniera di simboli e di raffigurazioni, è anche un bel catalogo di malattie: la piccola Margherita, al centro della scena, avrebbe la sindrome di Albright, una patologia genetica rara che si manifesta con la pubertà precoce, la bassa statura, il gozzo. E non se la passano meglio, sulla destra, Maribarbola e Nicolasito, affetti entrambi da nanismo. 

Nella sala d’aspetto virtuale di Vito Franco c’è pure una sfilata di malattie e disfunzioni sessuali: è il caso di uno dei primi ermafroditi mai ritratti (Sant’Onofrio, in un affresco dell’ottavo secolo nella chiesa copta della Cappadocia) e dell’inquietante «Mujer Barbuda» di José de Ribera, dove un uomo con barbone nero e cappello porge il seno a un lattante. 

Ci sono anche casi in cui l’iconodiagnosta riesce a visitare il suo paziente due volte, e a distanza di tempo: è il caso di Dick Ket che nel 1939 si ritrae con le dita a bacchetta di tamburo, segno di una grave patologia polmonare. «In un dipinto di sette anni prima - dice Franco - ha le dita meno sformate ma presenta un turgore anomalo delle vene del collo, segno della stessa sindrome ma in fase iniziale». 

Una relazione, quella tra arte e malattia, che diventa centrale se il paziente è l’artista, se è lui a soffrire, se è lui a guardare e ritrarre il mondo con gli occhi alterati dal dolore: succede in Van Gogh, in Frida Kahlo, e pure in Toulouse Lautrec, figlio di cugini di primo grado, molto basso, con le orecchie a punta, il mento piccolo, le dita corte. Creatori di grandi opere. E di casi clinici complessi.  

sabato 22 marzo 2014

NEUROSCIENZE A TATOOINE: PERCHE' LA LUNA ALL'ORIZZONTE SEMBRA PIU' GRANDE?



Avete presente quelle sere di luna piena, quando il nostro satellite è basso sull'orizzonte ed è così grande che sembra di poterlo toccare? Quanti hanno provato a tirare fuori un telefonino salvo accorgersi che nella foto la luna è molto più piccola di come sembra dal vivo?

No, non siete pazzi, ma è inutile affannarsi con zoom e teleobiettivi perchè si tratta di un'illusione ottica che fa impazzire i neuroscienziati della visione da qualche secolo.

Forse qualcuno si chiederà perchè ho deciso di affrontare proprio questo argomento che non c'entra nulla col resto del blog, e anche se non ve lo siete chiesto vi beccate la storiella lo stesso. Correva l'anno 2010 e mi trovavo in vacanza a Malaga con un'amica e i suoi compagni di erasmus, una sera, mentre degustavamo paella sul lungomare, sorge dall'acqua una luna enorme che gli obiettivi delle macchine fotografiche non riescono (ovviamente) ad immortalare. Mi lancio lì per lì in una spiegazione che ricordavo di aver letto su un libro di neuroscienze sul perchè quella della luna all'orizzonte altro non fosse che un'illusione ottica o meglio una diretta conseguenza del modo che il nostro cervello ha di percepire le distanze e le dimensioni degli oggetti e divento così per una decina di persone "quella-tipa-strana-della-teoria-della-luna".
Poichè questo insignificante episodio mi è stato ricordato di recente, mi è venuta la curiosità di capire quanto ci fosse di vero nella spiegazione del mio libro di fisiologia ed è così che ho trovato questo articolo.

Per tutti quelli che non hanno voglia di impiegare ore di tempo per leggerlo e capirlo vi offro una spiegazione rapida che vi farà fare una splendida figura a cena coi suoceri o sembrare sociopatici al primo appuntamento con una ragazza ("Guarda che luna grande, amore, non è romantico?" "Beh, vedi in realtà ti sembra che sia grande, ma dipende dalla legge di Emmert").
Pronti? Allora incominciamo.

La distanza tra l'osservatore e la luna è sempre la stessa, indipendentemente dall'altezza di quest'ultima sull'orizzonte, è però esperienza comune che sia percepita come più grande quando è più bassa sull'orizzonte, come nella figura a destra in cui i cerchi vuoti sono le dimensioni reali e i pallini pieni le dimensioni percepite.

Perchè?


Esistono almeno due teorie su come il nostro cervello calcola dimensione e distanza degli oggetti. La prima, detta teoria della distanza apparente si basa sulla legge di Emmert secondo la quale la dimensione percepita di un oggetto è proporzionale alla distanza percepita, quindi la luna all'orizzonte sembra più grande perchè sembra più lontana. Una legge analoga esiste per gli oggetti comuni e recita "la dimensione lineare percepita di un oggetto è inversamente proporzionale alla distanza dell'oggetto dall'osservatore", il che all'inverso significa che da un oggetto di dimensioni lineari note stimerò la distanza in base alle dimensioni percepite. Nella vita quotidiana è così intuitivo che non ce ne accorgiamo, ma appena perdiamo ogni punto di riferimento per un momento ci lasciamo ingannare.


Ad esempio nella foto accanto (ah, che bei ricordi il viaggio di laurea!) si può presumere che il gruppo sia costituito da persone alte in media 170 cm e sia quindi molto più lontano dall'osservatore della ragazza in primo piano, anche se per un istante abbiamo pensato di essere a Lilliput...

Per la luna non è altrettanto facile in quanto non abbiamo esperienza diretta delle sue dimensioni. Non sappiamo quanto è grande da vicino per poter calcolare la distanza sulla base delle dimensioni percepite. Sappiamo solo che l'orizzonte è molto lontano perchè gli oggetti di cui conosciamo le dimensioni ci appaiono molto piccoli, di conseguenza la luna all'orizzonte deve essere molto lontana e quindi molto grande. Viceversa quando è alta nel cielo e priva di punti di riferimento le attribuiamo una distanza standard che è minore dell'orizzonte e quindi la vediamo più piccola.
C'è un problema: la luna all'orizzonte ci sembra sì molto grande, ma anche più vicina di quando è allo zenith, da qui nasce la seconda teoria che è l'esatto opposto della prima e recita: la distanza della luna viene desunta dalla sua dimensione percepita. Ovvero la luna all'orizzonte sembra più vicina perchè la vediamo più grande. Il fenomeno chiamato a giustificare questa teoria è la micropsia accomodativa, secondo il quale quando guardiamo degli oggetti in mezzo al cielo senza punti di riferimento tendiamo ad accomodare di più di quando guardiamo verso l'orizzonte e questi ci appaiono così più piccoli. Dalle minori dimensioni percepite, secondo questa teoria, deriviamo una distanza maggiore.

Come stabilire quale teoria è corretta?

Gli autori dell'articolo hanno costruito allo scopo un ingegnoso sistema di specchi e dischi all'interno di un visore tridimensionale simile al view master (per i vecchi che ricordano quest'epoca pre-Nintendo 3Ds e pre film 3D). 
Hanno sottoposto a 4 soggetti per 25 volte l'immagine di un paesaggio con due lune delle stesse dimensioni, una fissa (di riferimento) e una con disparità binoculare variabile, il che si traduce, nel visore, in un avvicinamento o allontanamento apparente della luna mobile rispetto a quella di riferimento*. Hanno poi chiesto agli osservatori di segnalare il momento in cui la luna mobile sembrava essere posta a metà strada tra l'osservatore e la luna di riferimento in due diverse condizioni: con un cielo omogeneo e con un paesaggio collinare sullo sfondo.
un paesaggio con due lune può evocare una sola cosa...
Secondo la teoria della distanza apparente, la luna all'orizzonte sembrerà più lontana, quindi la disparità binoculare registrata per la luna mobile posta a metà strada tra l'osservatore e il riferimento sarà minore di quella registrata nel caso della luna alta nel cielo  (ricordo che a disparità maggiore corrispondono oggetti percepiti come più vicini).
E' quello che gli autori dello studio hanno osservato, la disparità binoculare registrata dai soggetti è 3,4 volte maggiore per la luna allo zenith rispetto a quella all'orizzonte.
Se volete una pessima riproduzione bidimensionale di questo effetto gli autori lo forniscono, con relativa spiegazione, a questi link (orizzonte e zenith).

Tra le due teorie la più valida sembra quindi la prima, quella della distanza apparente, secondo la quale la luna all'orizzonte sembra più grande perchè le attribuiamo una distanza maggiore.
Questo pone però un secondo interrogativo, ovvero perchè a tutti noi la luna all'orizzonte oltre che più grande sembra più vicina?
Perchè una volta che ne abbiamo percepito le dimensioni sulla base della distanza facciamo un ragionamento inverso e deduciamo la distanza dalle dimensioni. Gli stessi autori l'hanno dimostrato sottoponendo a 10 soggetti immagini statiche di paesaggi o sfondi omogenei con lune più grandi o più piccole e nel 90% dei casi le lune più grandi sono state definite come più vicine.

Che sia un'errata interpretazione è dimostrato da un altro esperimento sempre effettuato con il visore tridimensionale: all'aumentare della disparità binoculare l'oggetto sembra più vicino e più piccolo indipendentemente dallo sfondo. Nel caso specifico con un'alta disparità binoculare la luna sembra un piccolo disco da hockey a qualche metro di distanza dal nostro naso e con una bassa disparità binoculare sembra un satellite enorme a una distanza stratosferica. Tutto ciò sia in presenza sia in assenza di punti di riferimento sullo sfondo. Per concludere in bellezza gli autori confutano anche la legge di Emmert per le grandi distanze, dimostrando che in assenza di rilevante disparità binoculare il rapporto dimensioni/distanza non è affatto direttamente proporzionale e una piccola variazione delle dimensioni percepite corrisponde ad una rilevante differenza nella percezione delle distanze, in particolare una differenza dell'8% nelle dimensioni del disco sposta la luna da una distanza di 3 Km a una di 60 metri.
E' (più o meno) tutto, d'ora in avanti, grazie ai due folli Kaufman, quando guarderete la luna piena sopra al Monte dei Cappuccini potrete sentirvi un po' Sheldon Cooper e rovinare il momento romantico a tutti i presenti.

*Questa illusione di tridimensionalità si ha perchè le immagini percepite dai due occhi sono tanto più diverse quanto più l'oggetto è vicino all'osservatore. Potete fare una prova mettendo il pollice davanti a voi, prendendo un punto di riferimento più lontano e chiudendo alternativamente l'occhio destro e l'occhio sinistro. E' uno dei tanti modi che ha il cervello di intuire la distanza degli oggetti nello spazio, nonchè quello che viene sfruttato nei film in 3D: si usano due telecamere poste ad una distanza pari a quella interoculare e un metodo qualunque (come lenti polarizzate in modo diverso) per proiettare entrambe le immagini sullo schermo e far sì che ciascuna arrivi all'occhio corrispondente.