domenica 16 novembre 2008

CURIOSITA' MICROBIOLOGICHE


  • le ostriche si mangiano con il limone non perchè siano più buone, ma per limitare la possibilità di infezione da vibrio parahemolyticus che è sensibile agli acidi
  • molti casi di ostie insanguinate sono in realtà dovuti alla presenza di colonie di Serratia, un batterio che produce un pigmento rosso sangue che per questo motivo è stato chiamato prodigiosina
  • la Francisella Tularensis è un batterio che colpisce soprattutto i cacciatori di conigli dell'arkansas, cercherò di tenerlo a mente nel caso me ne capiti uno in ambulatorio...
  • la peste nera è tuttora diffusa, in occidente, soprattutto presso i ranger dei grandi parchi americani.
  • la lebbra è endemica negli armadilli texani (se ne incontrate uno, mi raccomando, non fatevi mordere!)
  • l'herpes del gladiatore è una specie di patereccio erpetico che insorge su spalle e schiena ed è particolarmente frequente nei combattenti di lotta libera.
  • un tempo la poliomielite paralizzante era considerata una malattia borghese in quanto le migliori condizioni igieniche delle famiglie benestanti ritardavano l'esposizione al virus fino all'adolescenza quando però l'infezione causa sintomi più gravi. Paradossalmente i bambini che contraggono il virus nella prima infanzia sviluppano un'infezione del tutto asintomatica
  • la febbre da zecche del colorado non va confusa con la febbre maculosa delle montagne rocciose, ma poichè siamo in Italia non credo ci sia pericolo di fraintendimenti
  • l'enterite necrosante è particolarmente diffusa a Papua Nuova Guinea durante la "festa del maialino". Gli indigeni, infatti, hanno alimentazione principalmente vegetariana per tutto l'anno, quando mangiano il maiale in questa sola occasione il loro stomaco non è pronto a distruggere le tossine del clostridium. Tutto ciò è aggravato dal fatto che il maiale viene ingerito con contorno di patate dolci, le quali inattivano la tripsina, un enzima gastrico in grado di distruggere la tossina del clostridium
  • In ospedale non è possibile portare fiori ai degenti perchè c'è il rischio che l'acqua dei vasi venga colonizzata da pseudomonas aeruginosa, un batterio molto difficile da debellare in quanto resistente a numerosi antibiotici.

lunedì 10 novembre 2008

SEI DI TORINO SE...

è uno di quegli elenchi simpatici che girano per la rete da tempo, l'ho trovato su un blog e mi è piaciuto, quindi lo riporto con a fianco i miei commenti.

  • riesci a dire GNUN
  • non riesci mai a usare il passato remoto [ehm no, nel parlato non ho mai usato il passato remoto in vita mia! p.s. CVD!!]
  • cioccolato, arance, pane e salame e carta stagnola ti riempiono di ricordi molto belli
  • al primo fiocco di neve pensi già a discese meravigliose [sìsì, ma più una volta a dire il vero]
  • puoi raccontare almeno una caduta epica in sci [ma certo! però niente bonus-costole-fratturate]
  • passi tutte le estati a Finale Ligure [no, però ci son stata parecchie volte]
  • vai in discoteca a bardonecchia in moto d' inverno [non ho una moto, odio la discoteca e non ho casa a bardonecchia... l'eccezione che conferma la regola!]
  • non sei mai andata al museo egizio, tanto è lì e puoi andarci domani [quasi vero! ci ho accompagnato parenti e amici non-torinesi in visita]
  • le montagne ti mancano tantissimo quando viaggi [eh sì un pochino]
  • in certe mattine senti in città il profumo della neve, del ghiaccio, dei torrenti di montagna [ehi con calma non abito mica in una baita!]
  • in fondo Cuneo è già abbastanza lontana [meglio non chiedere ai torinesi dei cuneesi e viceversa]
  • ricordi con rimpianto la torino di dieci anni fa [per quel poco che mi ricordo]
  • ormai sai che all' estero nessuno sa bene dove sia la tua città [diciamo che da dopo le olimpiadi la gente sa che torino è in italia, sul resto stiamo lavorando]
  • usi la parola cicles! [eh sì, questo è il più grosso problema linguistico nei raduni nazionali :-) ma anche gli americani del sud usano ciclets, siamo giustificati!]

NEUROSCIENZE CUBETTI AZZURRI E FUSIONE MENTALE



Cominciamo a chiarire una cosa: ai ciechi dalla nascita non importa di vedere più di quanto a noi potrebbe importare percepire i campi elettromagnetici con le antenne. Spiegare la vista a un cieco è come spiegare la quarta dimensione, semplicemente inconcepibile. Questo perché se anche un cieco si ritrovasse con occhio, retina, nervi e corteccia visiva funzionanti non “vedrebbe” nulla, non saprebbe che farsene di questa valanga di informazioni che gli arrivano e in assenza di una specifica codifica – che va appresa – le ignorerebbe. Se qualcuno di voi ha mai provato ad aprire un’immagine jpeg con un elaboratore di testo può capire quello che intendo: sentire, ascoltare o toccare un’immagine è impossibile.

So che vi starete chiedendo dove voglia andare a parare, quindi vengo al punto: le sensazioni sono elaborazioni dei cervello che decide di codificare una serie di impulsi esterni in base all’esperienza acquisita. In assenza di esperienza non si ha sensazione, ma, e qui viene il busillis, chi ci assicura che la STESSA esperienza provochi la MEDESIMA sensazione in persone diverse?

Prendiamo il senso della vista che è facile da analizzare e da immaginare. Cominciamo con il pensare a un bambino piccolo che gioca con i cubetti (sì, bravi quelli di varie dimensioni e colori che si impilano, in ogni casa ce ne sono). La luce solare colpisce il cubo azzurro, una certa lunghezza d’onda viene rifratta, colpisce la retina del bambino, questo stimola la produzione di un segnale che viaggia fino alla corteccia visiva e qui si attivano una serie di neuroni. Ogni volta che il bambino volge gli occhio verso quel particolare cubetto succede la stessa cosa e gli stessi neuroni si attivano (ovviamente non è proprio così e sto semplificando parecchio me ne scuso con i numerosissimi neuroscienziati che leggono questo pezzo).

Col tempo l’associazione si è fatta stabile cubetto = neuroni = azzurro. L’attivazione di quei particolari neuroni mi dà la sensazione di azzurro.

Fin qui funziona tutto meglio delle coincidenze delle ferrovie teutoniche. Immaginiamo ora che il bambino esca all’aperto e veda il cielo di quell’esatta tonalità del cubetto, si attivano i neuroni azzurri e il cielo sarà azzurro.
Quando il bambino impara a parlare un genitore premuroso gli insegnerà che quel colore si chiama azzurro, ma per quel che ci riguarda potrebbe essere light blue o carriola o scarcagnac che farebbe lo stesso.

Ora, ciò che mi domando è: chi ci assicura che la sensazione prodotta dall’azzurro sia la stessa per il bambino, sua madre, me, Umberto Eco, Barack Obama, Bruce Willis, Pamela Anderson, lo zio Sam, il gatto dei vicini e Spongebob?

Se posso essere relativamente sicura che il gatto dei vicini abbia una sensazione di azzurro diversa dalla mia, chi mi assicura che la mia sia uguale a quella di Obama?
Per questo alla filosofia ho preferitol’approccio scientifico, anzi ho a sensazione che con queste basi di neuroscienze i dibattiti col professore di filosofia del liceo che mi dava della materialista-empirista sarebbero stati di gran lunga più interessanti. Purtroppo la vita non si vive mai nell’ordine giusto, ma di questo problema mi occuperò un’altra volta.

Per tornare all’azzurro problema la questione è tutt’altro che risibile, si tratta di capire:

  1. se i neuroni che si attivano la prima volta che si vede un colore siano gli stessi per tutti o se in qualche modo possa dipendere dal fatto che il primo oggetto azzurro ad essere visto sia un cubo piuttosto che una piramide o sia in casa piuttosto che al parco.
  2. Se l’attivazione di quelli che abbiamo chiamato neuroni azzurri producano effettivamente la stessa sensazione in individui diversi.
Se il primo punto è difficile da dimostrare, il secondo è concettualmente impossibile perché implicherebbe il fatto che una persona con la propria coscienza possa accedere alle sensazioni di un altro e confrontarle con le proprie. Una fusione mentale alla Star Trek in pratica; vorrà dire che aspetterò il primo contatto nel 2063 e chiederò ai vulcaniani di persona.

domenica 2 novembre 2008

LE AULE STORICHE


Non c’è anno in cui a medicina non si riapra la discussione aule storiche vs nuovi edifici futuristici. I SOPRA (sostenitori del progresso nelle aule) ergono a proprio baluardo alcune considerazioni inoppugnabili, le aule moderne (vedi biotecnologie) hanno:
  • sedili più comodi
  • proiettori e microfoni funzionanti
  • non rischiano di crollare da un momento all’altro
  • sono o potrebbero essere tutte vicine e addirittura si potrebbe restare nella stessa aula per anni senza spostarsi di ora in ora.
I SOTTO (sostenitori della tradizione torinese) di cui non so chi faccia parte oltre alla sottoscritta, sostengono invece:
  • le aule storiche sono più scomode (non sempre in ogni caso) ma più poetiche e non claustrofobiche.
  • microfoni e proiettori con un’adeguata manutenzione funzionano anche lì (e c’è la linea wireless che a biotech ancora latita)
  • cambiare aula è divertente, fa associare ogni prof al suo ambiente ed evita la formazione di gruppetti fissi perché se ciascuno ha il suo posto preferito in ogni aula ne deriva che cambierà vicini più volte al giorno e non manterrà sempre gli stessi.
Certo è difficile combattere a forza di poesia, ma ci proverò ugualmente. Queste sono alcune considerazioni che mi han portato a fondare e sostenere il SOTTO.

Entrare a biotecnologie mi faceva pensare di essere in un film americano, fino alle scale quando prevaleva la sensazione di trovarsi in un parcheggio in costruzione, cemento grigio tutto attorno e nient’altro. Le aule sono comode sì, perfette per le conferenze, ma poco didattiche: chi ha provato a parlare con un professore messo tre gradini più in alto con la cattedra che a te arriva al mento e lui che si sporge da sopra stile Polifemo sa di cosa sto parlando. Certo, facilitava i test psicologici sugli insegnanti dividendoli subito in 2 categorie: quelli che quando ti avvicini scendono e si portano ad altezza occhi e quelli che restano sul loro trespolo-trono e ti fanno sentire in inferiorità.

Queste aule poi han messo in crisi un’intera categoria di professori, gli Itineranti: quelli che non riescono a parlare da dietro la cattedra, ma devono accompagnare ogni ragionamento con un adeguato movimento e camminano su e giù davanti alla lavagna, salgono e scendono le scale interpellando questo o quello studente. Difficile passeggiare in un cinema, impossibile indicare con precisione uno studente a cui chiedere una risposta, ne sa qualcosa Hirsch che dopo una settimana di “Tu maglietta verde” si è trovato di fronte duecento indistinguibili studenti vestiti di grigio-tappezzeria, primo caso di auto-uniforme della storia.

Veniamo ora alle aule storiche: ognuna ha una sua peculiarità. Prendiamo biochimica con la sua cattedra di 12 metri l’utilità della quale resta misteriosa, a parte costringere i professori a strane evoluzioni per spostarsi e gli studenti a improbabili acrobazie per attraversare l’aula.

Prendiamo anatomia, l’emiciclo così bello da essere richiesto per i film una volta all’anno, un tempo era alta il doppio, quasi un parlamento. L’acustica è così perfetta da non richiedere un microfono e ci sono banchi con incisioni risalenti gli anni ’20 gli stessi banchi dove molti dei nostri professori hanno sonnecchiato (se non dormito profondamente) come generazioni e generazioni di studenti fino a noi.

Prendiamo l’aula di chirurgia con i suoi ottocenteschi dipinti e mezzibusti e le targhe dalla retorica dannunziana.

Prendiamo fisiologia con le sue sculture e targhe che ricordano professori celebri, fondatori dell’istituto e studenti scomparsi prematuramente. Le balconate superiori furono chiuse in seguito a uno scherzo goliardico di trent’anni fa, quando alcuni studenti bersagliarono con uova piene di inchiostro professori e studenti per poi darsi alla fuga dalle comode porte separate. L’aula dove ogni caduto è perso e si tramanda l’epica avventura dello studente a cui cadde il libretto tra le assi del pavimento. Fu recuperato insieme a preziosi documenti persisi nei secoli e forse cadaveri occultati, dopo ore di lavoro del falegname.

Trovo rassicurante sostenere l’esame in un’aula dove chi ti interroga è stato sottoposto a giudizio prima di te, e dove i ruoli si potranno invertire.
Trovo più epico di un campus americano precipitato per sbaglio in via nizza varcare l’alto portone di legno di corso massimo e ritrovarmi ai piedi di una scalinata di marmo con i corridoi in mosaico e i soffitti affrescati.
Trovo che la sala settoria con i tavoli di pietra e gli sgabelli di ferro sia l’ambiente giusto per le esercitazioni di anatomia più di quanto non potrebbe esserlo una sala operatoria dalla chirurgica asetticità.
Trovo che scoprire passaggi che uniscono un edificio all’altro attraverso cantine buie e polverose dia una infantile soddisfazione da esploratore.

Certo, quando il proiettore si spegne improvvisamente perché il cavo che attraversa l’aula nascosto sotto le gradinate di legno non fa contatto mi lamento come tutti, ma è l’irrinunciabile sacrificio da pagare alla poesia.