sabato 9 aprile 2016

TEMPO CHE PASSA E BOCCHE CHE SANGUINANO

Non fosse per la nebbia potrei dire di essere a Parigi
Pregasi notare il volatile allineato allo zenith della piramide...
Ah se solo Dan Brown avesse lavorato al St George's, altro che Codice Da Vinci.

E' già passato un mese, è solo passato un mese. A tratti sembra che il tempo qui sia volato, in certi momenti mi sembra invece di non essermi spostata di una virgola. Sono ancora qui che aspetto che il GMC maledetto mi approvi la licenza e nel frattempo faccio quello che posso, quello che riesco: più di quello che potrei, meno di quello che saprei.


Non che mi sia messa a contare i giorni, ma giovedì il telefono ha smesso di funzionare, chissà perché mi dico lì per lì, ma in fondo in questo ospedale non prende mai, devi uscire in cortile, oppure affacciarti alla finestra del primo piano, ma non quella che dà sul cortile interno con la fontana e i vialetti di ciottoli, quella del parcheggio delle ambulanze, e allora, forse, se Marte è allineato con il Capricorno, prende anche internet. Ma giovedì niente, e così ho poi realizzato che era il 7 Aprile, che sono già qui da un mese e che la mia sim pay-as-you-go era scaduta.

In questo mese ci sono stati giorni belli e giorni brutti, momenti di esaltazione e altri in cui torni a casa sentendoti un completo idiota. Oggi sono con la stessa specializzanda di pneumologia che mi ha accolto il primo giorno. Con la differenza che il suo inglese velocissimo ora mi è perfettamente comprensibile, anche in mezzo agli allarmi che suonano, agli infermieri che parlano e alle lucidatrici del corridoio che oltre ad intralciare il passo producono un rumore incessante e fastidiosissimo.
E sempre oggi mi affidano una paziente da ricoverare in resus (i codici alti del pronto soccorso), una graziosa 76enne con un rossetto color sangue molto evidente. E' sangue (dicesi emottisi), chiarisco leggendo i fogli dell'ambulanza. E incredibilmente me la cavo sia a farmi spiegare da lei e dal marito cosa fosse successo, sia a compilare la cartella, sia a chiedere all'infermiera di ricoagularla con la vitamina k. Nessuno mi ha guardato come se venissi da Marte, quindi probabilmente devo anche essere riuscita ad esprimermi in una delle molte forme di inglese che vengono qui riconosciute come accettabili per instaurare una comunicazione.
Mentre guardo il suo elettrocardiogramma e la sua radiografia del torace la signora parte alla volta della radiologia per fare una TAC per escludere un'embolia polmonare. Alla radiografia c'è un'ombra a destra, come un'interstiziopatia, e mi compiaccio di leggere nel referto della TAC che per il radiologo si tratta di un'emorragia alveolare o di una polmonite da aspirazione. La prima ipotesi è più compatibile con la storia (svegliarsi in pieno benessere tossendo sangue), la seconda sta meglio con gli esami e le condizioni attuali della signora (emoglobina non così bassa, urea un po' alta, storia di reflusso gastrico, uno strano dolore alla bocca dello stomaco). Faccio un'emogasanalisi che nessuno aveva ancora provveduto a chiedere e prescrivo della morfina per il dolore che sembra peggiorare. La signora ha quella facies indefinita, di quelle che ti fanno dire "questa non mi piace", quelle che hai imparato a riconoscere al volo e che non dipendono strettamente da una o da un'altra patologia, ma non fanno presagire nulla di buono. Siccome però le sfumature del mio inglese non giungono a tanto, questa considerazione me la tengo per me e mi limito a riportare i fatti alla specializzanda che controfirmerà la cartella. Così iniziamo la terapia antibiotica per la polmonite da aspirazione, e anche un po' di cortisone, che male non fa mai, soprattutto se alla base dell'emorragia alveolare ci fosse qualche tipo di patologia autoimmune.

Passano tre ore e la signora viene spostata dal pronto soccorso al nostro reparto. L'infermiera mi sottopone l'elettrocardiogramma di ingresso, è comparso un ritmo bigemino che prima non c'era, peccato che nel frattempo l'ecg del pronto sia andato smarrito, esiste solo più nella mia memoria (mi sento quasi a casa). Rivaluto la signora che ha un aspetto sempre peggiore, e poiché in giro non c'è nessun altro, ripeto gli esami di mia iniziativa (impiegando circa tre minuti a fare il prelievo e mezz'ora a litigare col sistema informatico e stampare le etichette, mi sento sempre più a casa). In poco più di un'ora mi chiama il laboratorio: la troponina della mia paziente è decuplicata, ha un infarto.
A questo punto è proprio necessario trovare qualcuno. Quando trovo la specializzanda che mi ha controfirmato la cartella e le racconto tutta la storia per tutta risposta mi chiede di chiamare i cardiologi "Conosci la storia della paziente molto meglio di me". Vero, ma parlo un inglese molto peggiore del tuo, penso. Però ci sono troppe altre cose a cui lei deve badare, così chiamo io la cardiologia. Ci va del bello e del buono per farsi capire al telefono tra termini che non so pronunciare (hemoptysis) o tradurre (bigeminismo), ma alla fine riesco a trasmettere ai cardiologi un po' della mia ansia. La diagnosi resta tutt'altro che chiara: un infarto polmonare, che spiegherebbe tutti i sintomi, è stato escluso dalla TAC (e poi un'embolia in una paziente scoagulata con il coumadin?). Un infarto miocardico non è facile da trattare in una paziente che sanguina. Alla fine tutti concordano che è meglio trasferire la paziente in terapia intensiva. Mentre scrivo il riassunto in cartella in attesa del cardiologo e dell'intensivista penso che non è poi male come fine del primo mese, anche se stasera farò per l'ennesima volta troppo tardi per passare a fare la spesa da Sainsbury e mi toccherà accontentarmi dei surgelati rimasti in freezer.