lunedì 2 novembre 2020

Covid-19, L'equazione emotiva della seconda ondata

Ogni volta che un bimbo dice: ‘Io non credo alle fate’, c’è una fatina che da qualche parte cade a terra morta.

J.M.Berrie, Peter Pan



Ospedali pieni, pronto soccorso intasato, tende dell'esercito fuori dall'ospedale, reparti convertiti in tutta fretta per ospitare i malati Covid, giovani medici e specializzandi contrattualizzati per dare una mano, tutto è tornato come a marzo, tranne per un particolare fondamentale: l'attitudine dei miei colleghi.
Da un po' li osservo, e più ci parlo, leggo cosa scrivono, li incontro, più vedo riflessi, nei loro, i miei stessi pensieri e sentimenti.
Il clima che si respira in ospedale come sui social network è di rassegnata frustrazione, con sfumature di rabbia e fastidio. C'è chi se la prende con chi quest'estate ha fatto festa, chi con il Governo che ha fatto troppo poco e troppo tardi, chi attacca i negazionisti invitandoli a offrirsi volontari per lavorare nei reparti Covid, chi tenta per l'ennesima volta di risolvere l'enigma lupo/capra/cavolo e attraversamento del fiume nella nuova versione 2020 figli/nonni/genitori operatori sanitari che devono vivere cercando di non ammalarsi di Covid.
Perché vedete, tecnicamente per il nostro lavoro non fa nessuna differenza che la gente ci applauda dai balconi o filmi di nascosto i parcheggi vuoti davanti agli ospedali per gridare al complotto, che ci regali il cibo o ci accusi di voler fermare il paese dall'alto del nostro stipendio fisso. Noi comunque ogni mattina entreremo in ospedale e cureremo allo stesso modo chi ci capita, "senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali o sociali"
Il problema è lo spirito con cui lo facciamo. 
Abbiamo le spalle larghe, noi del pronto soccorso. Ogni giorno c'è qualcuno che si lamenta, urla, inveisce, sputa, lancia oggetti, aggredisce un operatore sanitario. Più raramente qualcuno commenta: "Come fate?", "Siete dei santi", "Complimenti", "Che pazienza", "Chi ve lo fa fare?".
Ce lo chiediamo tutti i giorni chi ce lo fa fare, a volte è lo sguardo riconoscente di un vecchietto a cui abbiamo portato una coperta in più, altre volte è la soddisfazione professionale di aver gestito bene un'emergenza, a volte è lo sguardo sereno con cui un malato si addormenta dopo l'antidolorifico, altre è il ringraziamento di un parente.
Tutti i giorni abbiamo altrettanti motivi per trovarlo detestabile questo lavoro: le immagini insopportabili che rimangono impresse negli occhi, il pianto della madre a cui abbiamo dovuto comunicare la morte del figlio, il colorito grigio del giovane che abbiamo tentato di rianimare invano per un'ora, la nonna morente, sola in un ospedale chiuso alle visite, la cronica mancanza di posti letto, l'ancora più cronica mancanza di personale e di risorse, l'impossibilità di concentrarsi per cinque minuti sullo stesso paziente perché c'è sempre troppo da fare, la coda infinita.
Ciò che chi sta fuori dall'ospedale pensa di noi non è che una variabile trascurabile di un'equazione complessissima, di quelle con mille parentesi e lettere strane che alle medie sbagliavo sempre.
È il risultato finale di questa equazione, però, ad essere importante: perché dopo tre pagine di calcoli può venirne fuori un numero positivo, e allora ci alziamo e andiamo a lavorare, o negativo, e allora firmiamo una lettera di dimissioni o di trasferimento e ci dedichiamo a una vita più tranquilla. La seconda possibilità capita sempre più spesso.
Ogni volta che un parente pensa di ottenere un trattamento migliore con un atteggiamento aggressivo, ogni volta che un paziente sporge denuncia per problemi futili o inesistenti, ogni volta che qualcuno ci aggredisce o posta l'ennesimo articolo sui dati di mortalità del Coronavirus, su Bill Gates, il 5G o i video di presunti reparti ospedalieri vuoti, una piccola, trascurabile, variabile si aggiunge all'equazione personale di ciascuno di noi operatori sanitari. E alle porte di questo lungo inverno la percezione di tutti è che l'equazione sia già pericolosamente vicina allo zero.

venerdì 30 ottobre 2020

Winter is coming

Improbe Neptunum accusat, qui iterum naufragium facit
Publilio Siro

Photo courtesy D.V.

Per un po’ abbiamo avuto la nostra personale Berlino, quel muro pieno di graffiti a dividere il pronto “pulito” da quello “sporco”, la zona Covid dalla zona non-Covid. Poi, come in Germania nel novembre ’89, a fine giugno è stato abbattuto. Un gesto scenografico che tutti abbiamo immortalato con i nostri telefoni a sancire una minuscola vittoria di questa strana guerra. Insieme al muro sono stati smantellati uno a uno i reparti Covid dell’ospedale, i contratti di collaborazione straordinaria sono stati sciolti, e infine le OGR sono tornate lo spazio polifunzionale per eventi che erano prima della pandemia.

In Pronto Soccorso, però, abbiamo continuato a lavorare come prima. Il muro è stato sostituito da un numero crescente di porte di vetro, più versatili e meno angoscianti, e gli spazi sono stati ridistribuiti continuamente. Abbiamo continuato a lavorare con tute, visor, filtranti e guanti anche quando i giornalisti hanno perso interesse, anche ad agosto, con l’aria condizionata sempre insufficiente a dare sollievo sotto troppi strati di plastica. Abbiamo continuato ossessivamente a cercare il Sars-Cov-2 in tutti i malati febbrili, con sintomi respiratori e poi anche in tutti i malati da ricoverare. Siamo stati attenti a non farci scappare neanche un caso possibile in fase di pretriage: il paziente non parla? Percorso Covid. Non è in grado di riferire un’anamnesi? Percorso Covid. Ha problemi delle vie aeree? Percorso Covid. Tanto erano sempre tutti negativi. Ci siamo compiaciuti, al momento di chiamare i pazienti a casa per comunicare l’esito del tampone, di notare colonne di “negativo” per pagine e pagine, come se veramente fosse stato merito nostro, come se si trattasse della schiacciante vittoria ottenuta grazie a una strategia ben congegnata. E non fosse, invece, la ritirata del nemico che brucia tutto alle sue spalle per riorganizzarsi e tornare più forte di prima.

Poi, un giorno, è tornato.

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giovedì 29 ottobre 2020

ESTATE

Yazd, Iran, Agosto 2017
Dicono che coprirsi protegga dal caldo, per questo i berberi del deserto si avvolgono in drappi che lasciano visibili solo gli occhi, eppure la sensazione che ho, sotto l’hijab mal annodato e la tunica a maniche lunghe, è ben diversa. Il caldo secco è molto meglio del caldo umido, si dice. Eppure quando il vento ardente del deserto soffia così forte da impedirti di alitare sugli occhiali per pulirli perché assorbe anche l’ultima molecola di vapore non sembra esserci differenza. Si arranca, si suda sotto gli strati di lino e cotone, ma fa così caldo che il sudore evapora, sublima, lasciando spossati.

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mercoledì 27 maggio 2020

Abbracciare con lo sguardo


Forse sarà che il mio primo giocattolo è stato un libro di pezza.
Forse sarà che mi hanno insegnato a leggere a tre anni.
Forse sarà che ogni sera mi addormentavo solo dopo un capitolo di un libro letto da papà.
Forse sarà che frequento il salone del libro dal 1991, quando le case editrici per bambini erano 4.
Ma sono sempre stata fissata con i libri.
Correva l'anno 1992, e, con l'entusiasmo dei miei 5 anni compiuti da meno di una settimana, giudicavo i tempi maturi per la mia prima pubblicazione.


Piegai un cartoncino a metà, scrissi diligentemente il mio nome sulla copertina, raccolsi una serie di racconti illustrati da me medesima, compilai un accurato indice ed ecco pronto il mio primo libro.
I più raffinati noteranno nell'ultima pagina scritta da sotto in su un mirabile esempio di letteratura ergodica (Danielewski spicciami casa).

Nel 1997 ci fu il grande salto. Grazie all'ufficio di papà mi ero procurata un personal computer con Wordpad, uno dei primissimi scanner a colori, una stampante a getto d'inchiostro anch'essa a colori e, incredibile a dirsi, persino una rilegatrice. Nacque così "la base spaziale", avventura di fantascienza-nonsense in tiratura limitatissima (10 copie da regalare a parenti e amici a Natale).






Forse sarà che quando si realizza un sogno che hai dall'età di cinque anni un po' di emozione è d'obbligo.
Ma volevo dirvelo.
Dalla prossima settimana trovate in libreria il mio libro.
Un libro vero.


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domenica 10 maggio 2020

Il consenso disinformato

Io odio il consenso informato.
Chiariamoci, non ho nulla contro il diritto sotteso al concetto di consenso informato, ritengo giustissimo che ciascuno abbia libertà di scelta riguardo al proprio corpo, ma è utopistico pensare che chiunque, in una condizione di fragilità, sia in grado di comprendere concetti complessi e scegliere per il proprio meglio. E le volte che, nel chiedere un consenso informato, mi sono sentita sottilmente in colpa o gravata di una responsabilità maggiore o in imbarazzo sono nettamente superiori a quelle in cui ho sentito di fare qualcosa di buono per il paziente. 

Il consenso informato tutela i valori di un individuo immaginario e perfetto dalle scelte, dettate da valori diversi, del suo medico curante. Ad esempio è accettabile, nella varietà delle scale di valori, che per qualcuno l'integrità fisica possa rivelarsi più importante della vita, quindi, ammesso che il paziente sia cosciente quando ci si trova ad affrontare questa decisione, lui solo potrà decidere se farsi amputare un arto o perdere la vita per un'infezione devastante.
Ricordo bene le lezioni di relazione medico-paziente in cui elencavano in buon ordine le cose da non fare:
- non incombere sul paziente
- non indirizzare le sue scelte
- non minimizzare i rischi né trascurarli
- chiedere conferma al paziente sulla sua comprensione della nostra spiegazione
- non influenzare il paziente
- non contrattare
- non rispondere alla domanda "Dottore Lei cosa farebbe?" e non accettare come risposta un "Dottore, mi fido di lei, faccia come crede sia meglio".
Sembrava tutto troppo facile sui libri, con questo paziente ideale che si informava, ripeteva diligentemente quanto detto e sceglieva in assoluta autonomia. L'avevo anche detto alle filosofe e psicologhe che tenevano il corso che sembrava tutto un po' troppo artificioso e difficilmente applicabile alla vita reale. 

Ora, lavorando, continuo a chiedermi se un paziente malato, spaventato, ricoverato in ospedale e verosimilmente digiuno di medicina sia in grado di esprimere un consenso veramente informato.
Certo, in parte è colpa nostra, dei medici, che, anziché spiegare tutte le alternative e le possibili complicanze, rifiliamo al malato un modulo scritto piccolissimo dicendogli che o lo firma oppure niente intervento chirurgico.
E' chiaro che, gestito in questo modo, il consenso non serve a niente, è solo percepito dal malato come uno scarico di responsabilità da parte del medico e dal medico come un'inutile lungaggine burocratica, se non come un implicito atto di sfiducia nei confronti del paziente.
Su una cartella una volta ho trovato scritto: "Paziente in visita preoperatoria. Si consensa", trovo che questo neologismo verbale in forma attiva dica tutto sulla visione che molti medici hanno del problema. 

Ma supponiamo che, per ogni procedura, noi informassimo veramente il paziente di ciò che può andare storto, senza peraltro offrirgli una valida alternativa: "E' fondamentale che lei faccia questa biopsia, perché senza non possiamo sapere se ha il cancro e quindi curarla, oppure se ha una malattia benigna. La biopsia però ha un rischio di sanguinamento del 5% e una mortalità dello 0,2%" (Sono numeri immaginari). E' tanto, è poco? Il paziente ha una vera alternativa?
La domanda che mi sono sentita rivolgere più spesso, dopo aver esposto pregi e difetti di una procedura, è proprio questa: "E se non firmo cosa succede?". Quasi sempre non c'è un'alternativa e se c'è è per forza di cose più rischiosa o con minori benefici attesi (sembrerà assurdo ma se proponiamo una procedura tendiamo a scegliere quella con minori rischi per il paziente). Quindi una volta che il paziente è stato adeguatamente informato che potrebbe morire per la biopsia che gli viene proposta gli rimane da scegliere se farla o se non farla e rischiare di avere il cancro senza saperlo e morire di quello. Immaginate l'ansia di cui caricate il paziente con una scelta del genere, un paziente che, vi ricordo, è malato e fragile.
Chiedere il consenso informato a un paziente, nel 90% dei casi equivale a chiedere al cliente di un'agenzia viaggi di firmare un modulo che attesta un rischio, col volo aereo che sta acquistando, del 5% di atterraggio di emergenza, del 3% di attacco terroristico e del 2% di morte. Solo che il viaggio non è di piacere, ma serve a riportare a casa una persona stanca e malata.
Chiedere il consenso informato ha senso quando le alternative proponibili sono più di una o in caso di problemi etici: preferisci l'anestesia generale, più rischiosa ma meno ansiogena, o la spinale, più rapida ma con l'effetto collaterale della veglia? Vuoi sapere di avere una malattia genetica incurabile? Vuoi essere trasfuso o la tua religione te lo impedisce e quindi preferisci rischiare ed eventualmente morire?
Nelle maggior parte delle procedure invasive il consenso informato è una pena, da entrambe le parti. Soprattutto nei casi, non infrequenti, in cui il paziente non ha gli strumenti per comprendere cosa gli state proponendo.

Oggi questo caso tocca a me.
Stefano porta male i suoi sessantadue anni, l'obesità e una tendenza all'isolamento sociale e, sospettiamo, all'alcolismo non aiutano. I parenti, che comunque in questo periodo non possono venire a trovarlo, sono anche peggio. Un giorno cade a terra improvvisamente e la figlia, spaventata, chiama il 118.
All'arrivo dei soccorritori Stefano è incosciente e ha una grave aritmia cardiaca: necessita di una scarica elettrica del defibrillatore per tornare in ritmo e di un ricovero in ospedale. Il cuore di Stefano funziona molto male: è dilatato e pompa circa un quarto di quanto dovrebbe, ma non sappiamo perché. A causa del suo disturbo psichiatrico Stefano non è mai andato dal medico e non si è mai fatto vedere in ospedale, non abbiamo precedenti per sapere come funzionasse il suo cuore uno o due anni fa. Le dita della mano destra macchiate di nicotina farebbero pensare a un infarto, ma potrebbe anche aver avuto un'infezione cardiaca o avere una cardiomiopatia dilatativa su base alcolica o idiopatica. Per scoprire quale di queste è la sua malattia, evitare che gli torni un'aritmia fatale e possibilmente curarlo è necessaria una coronarografia.
La mia collega di turno ieri ci ha già provato: appena è entrata in stanza con un foglio e una penna Stefano si è chiuso in se stesso: "Non firmo niente" manco fossimo i finti tecnici dell'Italgas che suonano al campanello per truffare i pensionati. La mia collega non si è arresa e ha provato a spiegare vantaggi e svantaggi della coronarografia, ottenendo sempre un netto rifiuto. 


Oggi è il mio turno. Entro nella stanza di Stefano e provo a stabilire una sintonia, un contatto. Non è facile neanche capire cosa mi dice, tra la voce arrochita dal fumo, i soli due denti rimastigli e il dialetto piuttosto stretto che mescola a poche parole in italiano. Questo è uno dei momenti in cui mi piacerebbe parlarlo il dialetto, forse mi aiuterebbe a comunicare, a farmi percepire come un alleato e non come un nemico. 


Non è la prima volta che cerco di strappare un consenso a una procedura ad un paziente riluttante e, nella mia esperienza, i problemi possibili sono tre: o il paziente non ha capito in cosa consiste la procedura, o il paziente non ha capito i vantaggi della procedura, o, ben più comune, il paziente ha paura di qualcosa (sentire dolore, vedere il sangue, non svegliarsi). Per tutti questi problemi c'è una soluzione semplice: spiegazioni alla sua portata nel primo caso, un po' di sano terrorismo psicologico nel secondo, rassicurazioni e farmaci nel terzo. 


Stefano non ha nessuno di questi problemi, oppure li ha tutti insieme. Di sicuro non ha facilità a seguire con attenzione le spiegazioni e l'unica cosa che ha capito è che se vuole può dire di no. Per uno che non si fida dei medici è abbastanza: "Non voglio fare la coronarografia perché non voglio".
Per dieci minuti non ci muoviamo da questo punto, io cerco di capire se non vuole perché ha paura, crede che non serva o vuole morire e lui mi risponde sempre "Non voglio e basta".
Passo alla strategia due: terrorizzarlo. Non bello da dirsi, ma spesso efficace.
"Se non fa questo esame non capiamo cos'ha non possiamo curarla e se torna l'aritmia muore"
"Non mi importa, voglio andare a casa"
Come un cane che fiuta l'osso decido di sfruttare questo punto di debolezza: "Se non fa l'esame non possiamo mandarla a casa perché è troppo pericoloso"
Ma Stefano è scaltro: "Io firmo e torno a casa, non potete tenermi qui"
Io però ho già avuto questo colloquio in passato e so cosa rispondere: "Se prova ad alzarsi e andare a casa non arriva alla porta dell'ospedale, sviene, dobbiamo soccorrerla e farle la coronarografia d'urgenza"
Il colloquio prosegue su questi toni per altri dieci minuti, poi Stefano improvvisamente si mette a parlare d'altro e chiede come funziona la coronarografia. Siamo passati al problema uno, ottimo. Il cardiologo, accanto a me, si lancia in una spiegazione complessa comprendente tubi radiogeni, cateteri, palloncini. Stefano è sempre più spaventato e continua a dire "Io non voglio fare questo intervento".
L'abbiamo perso. Usciamo dalla stanza. 

Un'ora dopo l'emodinamica mi chiama per sapere cosa fare di questo paziente in lista da due giorni che non ha ancora firmato il consenso alla procedura. Decido di concedermi un secondo tentativo, da sola.
Ricomincio da capo: "Perché non vuole fare questo esame?"
"Non voglio, mi avete detto che posso scegliere di non farlo e non voglio farlo".
"Sì, ma perché? Ha paura di avere male? Ha paura di qualcos'altro? Perché non vuole farlo?"
"Voglio andare a casa"
"Ma senza questo esame starà qui un sacco di tempo perché non capiremo cos'ha e non potremo curarla"
"Non voglio farlo"
E avanti così per un tempo interminabile fino a una svolta: "I medici usano i malati per fare scuola". In fondo noi eravamo i finti tecnici dell'Italgas che truffano i pensionati, almeno nella sua mente.
Questo è un problema che non ha una risposta collaudata, si può solo ricominciare da capo e sperare di ottenere la fiducia del paziente in qualche modo.
Dopo qualche tempo siamo di nuovo alla fase: come funziona la coronarografia. Questa volta imparo dall'esperienza precedente e semplifico il più possibile. Gli indico la cannula arteriosa che ha al polso sinistro: "Si ricorda quando le hanno messo quello? E' uguale, sente un buco sul polso e sta sdraiato su un lettino. Sopra di lei ci sarà un cubo dei raggi, deve solo stare sdraiato e non sentirà niente".
"Mi addormentano?"
Domanda trabocchetto... non c'è una risposta giusta, qualcuno è rassicurato dal perdere conoscenza ed emergere da una procedura guarito, qualcun altro ne è terrorizzato. Ho una sola possibilità e anche una sola risposta da dare: "No, rimarrà sveglio, ma se ha paura possiamo farle un sedativo leggero".
Stefano non risponde e cambia di nuovo argomento: "Però io volevo un caffè". Si riferisce alla colazione di questa mattina che non gli hanno dato perché era a digiuno in previsione della coronarografia che non ha voluto fare. Solo che ormai sono le due del pomeriggio e il carrello della colazione è sparito da ore.
Improvvisamente mi tornano in mente le parole del corso di relazione medico-paziente: "Non contrattare". Mando un vaffanculo mentale alle filosofe e psicologhe e propongo a Stefano: "Se Le porto un caffè farà la coronarografia?"
Lui, come sempre, risponde con un'altra domanda: "Me la fai te?"
Mi sento onorata, ho conquistato la sua fiducia, peccato che debba rispondergli di no: "Non sono capace, la fanno i cardiologi, però se vuoi ti accompagno fino alla sala di emodinamica"
"Però voglio il caffè". Non se l'è dimenticato.
Vado in sala medici, gli preparo un espresso con la nostra macchinetta, ci metto anche lo zucchero che ovviamente vuole, pazienza per il suo diabete, e torno con un caffè in una mano e un modulo di consenso alla coronarografia nell'altra.
Stefano, buono buono, beve il caffè, firma il modulo e si fa accompagnare docilmente in sala di emodinamica, dove risponde con cortesia alle domande del cardiologo.
"Tutto bene, Stefano?" mi accerto prima di tornare in reparto
"Sì, ci vediamo dopo".
Con buona pace del "consenso informato".

venerdì 24 aprile 2020

Una flebile speranza


Episodio precedente

Oggi è una giornata fantastica. Di questi tempi le aspettative necessarie a meritare l'uso di un tale aggettivo si sono alquanto abbassate, ma penso di non esagerare.
Atmosfericamente è uno splendido pomeriggio: è primavera, il sole splende in un cielo blu senza nuvole, il nitore abbagliante dell'atmosfera priva di smog rende la basilica di Superga così vicina da poterla sfiorare. Mi godo ogni momento: la preparazione a casa, la prima volta quest'anno che indosso dei vestiti primaverili, il rumore del motore della Vespa quando la accendo, il sole che accarezza la pelle, il vento sulle mani. Oggi è stata indetta una riunione di reparto che, come ogni cosa in tempo di Covid, è sui generis. Per cominciare si svolge in giardino, unico luogo aperto che possa garantire un metro di distanza tra i numerosi operatori convocati. Arriviamo alla spicciolata, spesso senza riconoscerci. "Daniela?" "Sì, tu chi sei? Ettore?" "No, sono Ferdinando". Lavoratori in divisa, siamo poco abituati a vederci nei vestiti di tutti i giorni, se a questi si aggiungono il metro di distanza regolamentare, una mascherina sul volto e gli occhiali da sole gli indizi a nostra disposizione per intuire chi ci si para davanti sono minimi. Ci salutiamo come se non ci vedessimo da secoli, anche se non può essere passato più di qualche turno. L'atmosfera è subito quella della gita scolastica, qualcuno si sdraia sul prato, qualcuno si siede su un muretto, altri iniziano a chiacchierare o a godersi il sole, nessuno ha fretta.

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sabato 18 aprile 2020

La fortuna ai tempi del Covid19

“Chi disse “preferisco avere fortuna che talento” percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no. E allora si perde”. (Woody Allen, Match Point)
Episodio precedente
Photo Courtesy of Fabio
A volte, in questo lavoro, si ha la netta sensazione che la fortuna sia tutto ciò che conti e che basti infilare una serie di eventi sfortunati per trovarsi in condizioni impensabili. 
Attilio, del letto 5, è ben più di un arzillo vecchietto: a Gennaio era così in forma da giocare a tennis. Durante quell’ultima partita, in uno scambio particolarmente combattuto (o almeno così lo immagino io) si fa male a una gamba.
L’incidente lo costringe a letto un paio di settimane e, nonostante la profilassi con l’eparina, l’immobilità provoca un trombo. Evento improbabile, ma non raro.
Complicanza possibile in questi casi, il trombo si stacca e causa un embolo che arriva ai polmoni e non gli permette di respirare.

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mercoledì 15 aprile 2020

La zona grigia - storia di U.S.C.A.

Secondo guest post, sempre a firma S., sempre a tema territorio. Questa volta si parla di USCA, la "guardia medica" speciale per i pazienti Covid.


"Per fortuna la nonna è morta due mesi fa"
I DPI schermano meno dalle espressioni facciali di quello che credevo, e la figlia della signora D. coglie subito la perplessità che ha suscitato in me questa frase
La sala da pranzo della signora D. dà direttamente su un cortiletto interno. Al momento è tutto spalancato, per far arieggiare i locali, come da noi richiesto. La signora D. si tira su la coperta. Ogni tanto un brivido la scuote; io sono grato di avere aria che mi circola attorno. È il pomeriggio di Pasqua. Le temperature si sono alzate e ad arrivare dalla signora ci abbiamo messo venticinque lunghissimi minuti in cui ho sudato come neanche a ferragosto al mare. In auto, sotto i vari strati di protezione, ho sentito la pelle pizzicare, a tratti bruciare. Sotto la mascherina mi è sembrato di sentire i peli della barba crescere, uno per uno, un micron per volta. Per molti è una piacevole giornata primaverile; io non vedo l'ora di potermi spogliare. Con la scusa di prendere visione di un recente ECG mi avvicino verso la porta-finestra. Inspiro, per quanto concesso dalla FFP2.
La figlia della signora D. fa un passo verso di me, poi si ricorda delle regole di distanziamento e si ferma. Vuole aiutarmi a districarmi tra i fogli, ma soprattutto vuole spiegarmi la frase di prima. Si è resa conto che le è uscita non proprio bene, ha intuito i miei pensieri e di passare per la stronza della situazione non le va. Sono settimane che la sua vita ruota 24 ore su 24 al prendersi cura di sua madre. Passare per la stronza con un omino vestito da Cernobyl 1986 non le va, e ha anche ragione.
La mamma ha una probabile sindrome covid (di diagnosi di certezza, sul territorio, non se ne parla): "zona grigia". Ospedalizzare sì o no? Zona grigia. Età? Zona grigia. Anamnesi per orientarsi sulla terapia? Zona grigia (già, soprattutto sul territorio, esistono pochissime certezze e linee guida). Parametri? Zona grigia. In questa zona grigia si muove anche la figlia. Ha fatto di tutto per evitare che la mamma finisse in ospedale, prima con il medico di medicina generale (MMG) e ora con noi, Unità Speciali Continuità Assistenziale (S.H.I.E.L.D. levati che non siete nessuno).
La nonna, ultraottantenne, è mancata due mesi fa, lasciando un mini alloggio vuoto sopra casa della signora D, come mi spiega la figlia, che ora può usare questo appartamento, ancora da sistemare, come appoggio mentre assiste la mamma. "Sto tutto il giorno con lei. Ho tutto, vede?: guanti, mascherine. Lavo sempre tutto, però vado su per i servizi e la doccia, prima di andare a dormire a casa mia. Non c'è una cucina... mia mamma portava da mangiare alla nonna tutti i giorni, e io ho piacere almeno a dormire con mio marito. Faccio la doccia e mi cambio verso le dieci, vado a casa, e alle sei e mezza suona la sveglia."
Questo, da tre settimane. La signora D. non peggiora e non migliora, però comincia a essere stanca e stufa, non solo astenica, ma proprio stanca e spossata dalla situazione. La figlia cerca di non darlo a vedere, ma ha paura, dubbi e vuole tornare a farsi la doccia a casa sua, senza aver paura di contagiare il marito. Credo che sia la prima volta che la figlia della signora D. racconti questa cosa a qualcuno.
Visito la signora D. Un esame obiettivo da zona grigia. In accordo con la collega in turno con me e seguendo un po' il pensiero del primo collega che l'ha visita, cambio antibiotico e aggiungo l'idrossiclorochina. Nessuna linea guida. Zona grigia. La signora ha parlato pochissimo durante tutta la visita, ma ci tiene a dirmi che se riuscisse ad alzarsi mi accompagnerebbe alla porta. La figlia ringrazia me e i miei colleghi, queste figure indistinguibili come tanti piccoli cloni imperiali, per il lavoro che facciamo. Io esco e mi chiedo, dopo due settimane, chissà qual è il lavoro che facciamo. Zona grigia.

Le U.S.C.A. (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) sono state istituite da un decreto Covid del 9 marzo e sono diventate operative, almeno teoricamente, il 30 marzo. In alcuni territori, come ASL Novara, sono partite in via sperimentale prima e ormai sono una realtà ben consolidata. Nella mia ASL siamo partiti il 30 per adempire al decreto, ma abbiamo iniziato a lavorare davvero almeno una settimana dopo.
Stranamente il decreto è ben scritto: spiega l'obiettivo (istruire delle unità territoriali che seguano i pazienti Covid per ridurre l'ospedalizzazione e affiancare i Medici di Medicina Generale che in questi mesi sono letteralmente morti di lavoro, più di qualsiasi altra categoria) e spiega i mezzi (senza DPI adeguati, per decreto, non si fanno domiciliari). In realtà l'applicazione del decreto è molto eterogenea e ogni territorio si organizza in modo suo, anche all'interno della stessa ASL.
In alcune realtà, oltre ai medici, ci sono anche infermieri per organizzare delle specie di mini ADI, cioè cure infermieristiche per terapie iniettive e monitoraggio; in altre i mezzi diagnostici in campo sono molti: cardiolina per ECG refertato da specialista tramite servizi di telemedicina e dotazione di ecografi per eseguire eco polmonari (dopo addestramento all'uso). Ad Alessandria è possibile prescrivere l'ossigenoterapia senza piano terapeutico per i pazienti covid, altrove è necessaria comunque la prescrizione specialistica. In alcune realtà si è investito molto nella formazione, in altre si è fatto vedere una volta un video di dieci minuti sul corretto uso dei DPI.
Anche sul versante prescrittivo mancano certezze e linee guida condivise e ogni territorio si sta organizzando da sé, tra sinergie MMG e USCA e, purtroppo, alcune spiacevoli incompensioni nella gestione del paziente. Stupisce in molte realtà la mancata organizzazione nelle settimane che sono intercorse tra il decreto e la sua applicazione: la medicina territoriale sta mostrando tutta la sua inadeguatezza organizzativa, ma anche tutta la sua resilienza, soprattutto nell'auto-organizzazione dei medici, dei servizi domiciliari e nella condivisione di saperi e esperienze, spesso nonostante chi ci sta sopra.
I servizi diagnostici, come l'esecuzione del tampone, rimangono esclusiva dell'ospedale e rendono complessa la gestione dei paucisintomatici, dei dubbi, dei loro conviventi. Ci stiamo muovendo in questa zona grigia tra sintomi da ospedalizzazione e sintomi lievi, arruolando un gran numero di pazienti che speriamo, tra poche visite domiciliari e molti monitoraggi telefonici, si sentano almeno meno soli se non meglio curati.

giovedì 9 aprile 2020

Covid19: curare una sola malattia



Egli fuggiva e temeva il "pressappoco", voleva la verità intera. Si sarebbe detto che durante quelle settimane la morte volesse giocare d'astuzia e d'audacia con lui. Ma fu lui ad averla vinta.Avrebbe toccato i microbi senza vederli.Rimaneva ancora da distruggerli. (Louis-Ferdinand Cèline, Il dottor Semmelweis)

Episodio precedente

Io di formazione sarei un internista. Di come spiegare in modo semplice cosa sia un internista avevo già parlato, vi basti sapere che in genere la nostra specialità è fare diagnosi. Capire tra mille malattie quale può avere il nostro paziente e poi, possibilmente, curarlo. Noi rifuggiamo la verticalizzazione, la conoscenza analitica di un gruppo di malattie in particolare, noi siamo i jolly, i fantasisti, quelli che si arrangiano un po' con tutto e se c'è bisogno chiedono agli specialisti.

Avere a che fare con una sola malattia, come durante un'epidemia, è un'esperienza unica e a tratti frustrante. Il brivido della diagnosi è totalmente assente, il rischio di fare errori diagnostici praticamente azzerato. Ciò non significa, però, che il lavoro sia più semplice: ci troviamo di fronte a mille copie della stessa malattia, con l'arduo compito di prevedere chi migliorerà e chi peggiorerà, chi può andare tranquillo a casa e chi ha bisogno di osservazione stretta, chi tra poche ore avrà bisogno di un ventilatore e chi resisterà giorni solo con l'ossigeno.
Per di più è una malattia relativamente nuova: abbiamo visto altre polmoniti virali, abbiamo idea della terapia da applicare nella sindrome da distress respiratorio acuto (che ha moltissime cause, tra le quali la polmonite virale), ma con questa malattia qui, con il COronaVirus Disease '19, non abbiamo esperienza. Studiamo, leggiamo gli articoli che vengono via via pubblicati, cerchiamo consigli da chi è qualche settimana avanti rispetto alla situazione che vediamo nel nostro ospedale, ma è difficile sapere con certezza come agire.
È difficile perché da Galileo in poi la scienza procede a piccoli passi, a teorie e smentite, a scoperte che si credono miracolose e poi funzionano in casi limitati, a dati che richiedono conferme negli anni, ma noi abbiamo fretta.


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lunedì 6 aprile 2020

Otto mascherine: il territorio e la comunità ai tempi del Covid19

Da quando è iniziata questa emergenza l'Italia (e il mondo) hanno scoperto la medicina d'urgenza e la terapia intensiva. Ora chiunque sa cosa fa un anestesista, la differenza tra una mascherina chirurgica e un filtrante, come funziona la ventilazione non invasiva, perché è utile pronare un malato e molte altre cose ultraspecialistiche. Si dà il caso che io faccia il medico d'urgenza e che quindi mi risulti facile raccontare cosa avviene ogni giorno in ospedale, ma c'è una parte della realtà medico-assistenziale più nascosta e ignorata dalla retorica dei media, negletta da sempre e difficilissima da proteggere. Quello che state per leggere è un guest post scritto da S. mio compagno di università e amico che si trova a fronteggiare la stessa emergenza in un ambito completamente diverso dal mio.
Ecco a voi il Covid19 con gli occhi di chi lavora in una comunità psichiatrica.




D. sta passando le due settimane più belle della sua vita. O almeno le più belle da quando è qui. La quarantena è la sua Disneyland.
Ridiamo, rigorosamente dietro uno schermo. Oggi sarà la quarta ora consecutiva che passo davanti a uno schermo. Con lo schermo in quarantena facciamo tutto: cene, sexting e lavoro. Tutto su skype, whatsapp, zoom. Divertente. Quando finalmente finirò di lavorare, potrò mettere su i felafel e, neanche a dirlo, riaccendere il computer e continuare a guardare il film da dove l'ho lasciato. Questi vendicatori hanno portato decisamente scompiglio a New York e, sinceramente, credo che qualcuno debba far prendere a quel Nick qualcuna delle sue responsabilità. Tutto attraverso lo schermo.
Parlavamo di D.
D. Non è propriamente un mio paziente. È ospite di una comunità dove, proprio a ridosso della pandemia, avevo iniziato a fare formazione e supervisione. È molto difficile rispondere alla domanda "Che medico sei?" quando mi viene rivolta.
Se avessi avuto un percorso più lineare (specializzazione, contratto da strutturato) sarebbe più semplice: "Faccio l'endocrinologo, ambulatorio diabetologia". Invece sono uno di quei "camici grigi", lavoro a partita iva, mai visto un contratto di assunzione e mi trovo a cambiare spesso lavoro, un po' perché così è questa fetta del mercato, un po' perché sono così io e in questa fluidità alla fine ci sguazzo pure troppo. Però ce la stavo facendo ad avere una qualche forma di stabilità, un qualche piano, tra strutture residenziali, formazione, giro di sostituzioni e turni in clinica. Poi SarsCov2 è arrivato in Europa e quasi tutti i miei lavori sono stati cancellati o, quando va bene, si sono trasformati in qualcos'altro, una sorta di manager reperibile 24/7.
In questa strana quotidianità ho dovuto confrontarmi con il virus in modi molto diversi e mi sono trovato a improvvisare risposte, con la sensazione di essere solo e senza indicazioni. Dai genitori degli ambulatori pediatrici che mi ponevano domande sulla prozia ricoverata, al servizio di educativa territoriale che, pre-confinamento, mi chiede una realistica valutazione del rischio di una pizzata in Val Chisone. Pian piano che abbiamo visto attorno a noi le cose cambiare e i toni dei media ci hanno pitturato una realtà diversa, le preoccupazioni sono cambiate e i quesiti pure. "Ma sarà sto covid?" e "Come facciamo con le mascherine? Servono?"
Sono iniziati i ricoveri. In una "mia" comunità R., a fine febbraio, è stato ricoverato due volte per polmonite interstiziale. Anche se ospedalizzato, non gli è stato fatto il tampone. Sarà covid? Probabile, ma se dico probaile cosa capiranno? Capiranno Sì" o capiranno "Probabile"? Rispondo la verità, e l'incertezza non piace mai come risposta quando viene da un medico. "Non c'è la diagnosi, ma la sintomatologia è compatibile, come anche i risultati degli esami. Ma potrebbe essere anche altro." Si sente dal tono della mia voce che ci credo veramente poco.
Con il ricovero di R. sono iniziate le mutue: ai coordinatori è venuto il sospetto che non sempre siano davvero giustificate e qualcuno si metta in mutua per paura. Dai dati che abbiamo, però, il contagio tra operatori sanitari è altissimo, per cui sì, ci si ammala a lavoro e ci si ammala tanto. Con le mutue sono comparse le soluzioni fantasiose per coprire i turni dei servizi residenziali, mentre i servizi non residenziali hanno dovuto chiudere (e con loro una parte del mio reddito del mese se n'è andato, così).
I lavoratori sono spaventati e chiedono risposte che non riesco a dare. Si vocifera che nel torinese abbiano chiesto a dei lavoratori sintomatici di mettersi in quarantena direttamente in struttura, dopo essere stati a contatto con ospiti covid+. Si dice che sia stato chiesto di passare due settimane in quarantena con gli utenti, per non aumentare il contagio a nuovi lavoratori. Una prospettiva che fa paura e che terrorizza quasi quanto la paura di portare il contagio ai propri affetti e ai propri cari.
Intanto il telefono squilla, le skype call si moltiplicano, la logistica dell'approvvigionamento dei DPI diventa la sfida del mese. Il fatto di avere utenti con disabilità importanti, spesso sindromici e con quadri di immunodepressione e fragilità, non cambia la burocrazia secondo cui noi siamo un servizio non sanitario e quindi i dispositivi arriveranno, se e quando ci saranno, dopo tutti gli altri. Le priorità sono altre, ci sentiamo dire da ormai un mese.

Forse sono pure d'accordo. Ho fatto 6 giorni di sostituzioni con un'unica mascherina chirurgica, trafugata da una collega, sotto giuramento di non rivelare mai la fonte. E infatti mi sono sono inevitabilmente ammalato e ho fatto la quarantena.
Forse è giusto che arriviamo dopo ogni ospedale, ogni ambulatorio, ogni servizio sanitario in senso stretto. Ma se uno dei miei pazienti venisse ospedalizzato, per colpa della mia scarsa capacità di organizzare e fornire ai lavoratori gli strumenti per non portare il contagio in comunità, sarebbe candidato più alla palliazione che alla rianimazione e alle cure intensive.

Da quando R. ha avuto la recidiva ho iniziato ad avere l'insonnia. Come vi dicevo, sono un medico un po' particolare. Spesso lavoro più con le equipe delle mie strutture che con gli ospiti, ma il sorriso di R. me lo ricordo. Mi ricordo quando ci siamo incontrati: sorriso sdentato, andatura steppante e succo di frutta da portare in sala riunioni, (ve le ricordate le sale riunioni? Non zoom, sale riunioni). È stata la mia ultima pausa caffé in comunità, quasi due mesi fa.
R. ormai sta bene. Ma la mia insonnia continua. Le cose più semplici, come la gestione della riabilitazione dopo una caduta, sono diventate sfide insormontabili. Grandi e piccoli problemi ormai sono una mole inestricabile di preoccupazioni da sbrogliare e gestire con quel briciolo di lucidità rimasta.
Ed è al ricovero di R. che penso mentre mi aggiornano su D. D. non l'ho conosciuto direttamente, anche se il suo caso mi è stato esposto poco prima che venisse isolato. Gestire in comunità un isolamento non è semplice, soprattutto quando non tutti gli ospiti hanno le capacità cognitive per capire gli stravolgimenti che avvengono attorno a loro.

Questa nuova routine, segregati e senza poter uscire, ricorda la gestione pre-Basaglia e ci fa paura pure dirlo. Certamente non per tutti, ma per i casi più gravi sì. Sono aumentate le prescrizioni farmacologiche e i dosaggi, mentre vediamo scomparire le attività e gli strumenti psicoeducativi messi in piedi con tanta fatica. Gli ospiti litigano per portare l'immondizia fuori. In un caso uno di questi litigi è diventata agitazione vera e propria, e ha richiesto un accesso in DEA, con tutte le preoccupazioni che da un accesso in DEA oggi derivano. Ai tempi del sarscov2, decidere chi butterà l'immondizia è un problema clinico che occupa risorse mentali e tempo. Chi l'avrebbe detto!

Però D. è felice. Un bambino confinato in una sala piena di cuscini, riadattata a camera da letto, circondato di attenzioni e, finalmente indisturbato, libero di sfogare le sue fissazioni: battere ritmicamente i libri uno con l'altro e far suonare i suoi carillion.
Ma D. non è il motivo della chiamata. C'è qualcosa di più complicato da discutere.
La questione DPI è questione di vita e di morte, letteralmente. Gli operatori in alcuni casi imboccano gli ospiti, fanno loro l'igiene. Il rischio di portare qualcosa da fuori è altissimo.
"Sono arrivate le mascherine della protezione civile".
Sento il battito cambiare il suo ritmo. Forse possiamo tirare un sospiro di sollievo. Qualche arma in più, oltre a quelle poche che siamo riusciti ad avere, in un clima di controspionaggio e contrabbando.
"Sono otto. Otto per noi e per il centro diurno."
Sono deluso, ma non stupito.
"Con sedici mascherine che ci facciamo?! Copriamo un turno e qualcosa!"
"No dottore, hai capito male. Otto tra noi e il centro diurno."
D. non lo sa che le rianimazioni sono piene, lui non sa cosa sia un ventilatore e sta notte dormirà circondato tra i suoi giochi in questa improvvisata vacanza. Non sa nulla delle sue chanche come paziente che presenta numerose comorbilità. Non lo sa, e sono settimane di beatitudine completa, mannaggia a lui e alla sua saturazione. Dormirà sereno questa notte, lui.
Io passerò la notte con i supereroi, sperando di assorbire un po' di coraggio per affrontare i problemi che domani si presenteranno.

domenica 5 aprile 2020

Il mondo ribaltato degli operatori sanitari all'epoca del Covid19

Si è in pochi e si ha contro un intero esercito; ma si difende il diritto, la legge naturale, la sovranità di ciascuno su se stesso, che non ammette possibili abdicazioni, la giustizia, la verità, e se occorre, si morirà come i trecento spartani. Non si pensa a Don Chisciotte, ma a Leonida. E si va sempre avanti e, una volta impegnati, non si indietreggia più e ci si precipita a testa china, con la speranza di una vittoria impossibile, la rivoluzione completata, il progresso rimesso in libertà, l’accrescimento del genere umano, la liberazione universale; e, alla peggio, le Termopili (I miserabili, Victor Hugo)
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Da un giorno all'altro, mentre l'Italia chiudeva, a noi operatori sanitari sono state annullate le ferie e raddoppiati i turni, ma quasi non ce ne siamo accorti. Abituati da sempre al sottile senso di colpa nei confronti delle nostre famiglie per weekend, feste e notti passate in ospedale anziché con i nostri cari abbiamo avvertito un vago sollievo. "Stasera non ci sono a cena", "Questo weekend lavoro", "Possiamo festeggiare il compleanno di papà venerdì anziché giovedì? Perché faccio notte".
All'improvviso tutto il resto del mondo è a casa, non organizza feste, non progetta weekend fuori porta, non compra biglietti di concerti ed eventi. Nessuna desiderata, nessun "Speriamo che martedì mi capiti di fare mattino così riesco ad andare a Yoga". Da un giorno all'altro lavorare in questo mondo ribaltato è diventato quasi un privilegio: siamo gli unici ad uscire di casa, gli unici a percorrere la città deserta, il traffico ormai un ricordo lontano, e a sapere se fuori fa freddo o c'è il sole. I nostri familiari sono sempre a casa, al mattino, se facciamo pomeriggio, tutto il giorno, se facciamo notte. La gente ci applaude, ci regala del cibo, ci chiama eroi, i supermercati ci fanno saltare la coda.
In questa bolla dove la domenica è uguale al giovedì anche i turni lo sono. Non esiste più un weekend libero e d'altro canto non sapremmo cosa farcene. L'organizzazione normale dell'ospedale si basa su risorse più abbondanti nei giorni feriali rispetto ai festivi quando gli ambulatori chiudono, gli interventi programmati non ci sono, molti specialisti sono reperibili da casa solo per le urgenze, gli esami diagnostici di secondo livello non vengono eseguiti. Il lavoro, anche per chi rimane, è in genere minore. Il numero di esami da chiedere e da controllare, di consulenti da chiamare, di procedure da seguire è limitato. Da un mese a questa parte, invece, viviamo in un lungo, affollato, weekend di lavoro. I servizi non essenziali sono tutti sospesi, gli esami di secondo livello sono banditi: una sola malattia, poche cure, tanta necessità di assistenza, tutta urgente.

La chiesa riadattata a reparto di degenza
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venerdì 3 aprile 2020

L'arte di arrangiarsi all'epoca del Covid19

Noi non valutiamo mai la realtà della nostra condizione fino al momento in cui ci viene illustrata da una congiuntura diametralmente opposta, nè sappiamo valutare i beni di cui godiamo fino a quando ci vengono a mancare. (Daniel Dafoe, Robinson Crusoe)

In questo scenario che dai media è stato definito più volte "di guerra" apprendiamo tutti l'arte di arrangiarci.

Dal primo giorno, a ogni turno, ci arrivano pacchi di maschere filtranti diverse: alcune con le scritte in cinese, altre in pacchi da 10 simili in modo sospetto a quelle delle ferramenta, a volte con la valvola, altre senza, moltissime difettose. Quando una si rompe cerchiamo di aggiustarla, per non sprecarla. In rianimazione una carrozzeria ha donato delle tute impermeabili per verniciare, utilissime anche per proteggersi dal Covid. La moglie di un paziente, che è anche una collega, ci ha regalato delle preziosissime maschere da ventilazione.
Lo shock culturale è enorme, ma come tutti gli shock di questo strano tempo, ci si abitua.
Passiamo improvvisamente dalla medicina usa-e-getta, quella in cui per mettere un accesso venoso centrale butti via due camici, due vaschette, un paio di pinze, delle forbici, un bisturi, due pacchi di garze e una bottiglia di clorexidina, all'arte del riciclo nota solo ai più anziani tra noi, quelli che hanno avuto la dubbia fortuna di lavorare con le suore.
Teniamo da parte tutto ciò che non usiamo, prima o poi tornerà utile, sterilizziamo tutto ciò che può essere sterilizzato, assembliamo parti che mai avremmo pensato fossero compatibili. In breve tempo diventiamo esperti di montaggio, di flussi d'aria garantiti dalle tubature, di sblocco di ventilatori domiciliari, di adeguamento di maschere.
Ogni giorno nasce un problema diverso e bisogna arrangiarsi a risolverlo: un giorno finiscono i caschi, quello dopo siamo senza flussimetri. Se recuperiamo un po' di ventilatori domiciliari ci mancano i circuiti dedicati e finiamo a rovistare negli armadi del reparto per recuperare campioni donatici anni fa e a cercare un modo per connettere i pezzi.


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mercoledì 1 aprile 2020

La straziante comunicazione medico-paziente al tempo del Covid19

"Quarantadue!" urlò Loonquawl. "Questo è tutto ciò che sai dire dopo un lavoro di sette milioni e mezzo di anni?"
"Ho controllato molto approfonditamente," disse il computer, "e questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda". (Douglas Adams, Guida Galattica per Autostoppisti)





In questo mondo di videochiamate, videoaperitivi, zoom, meet, skype, facetime e app che fino a ieri non avevamo mai sentito i malati Covid vivono in una bolla.
Vengono prelevati a casa da operatori del 118 in tuta impermeabile bianca o arrivano al pre-triage dove i parenti vengono rispediti a casa e finiscono in un vortice dal quale usciranno dopo poche ore o dopo molte settimane, sempre con gli stessi vestiti, alcuni senza telefono, senza possibilità di comunicare con l'esterno. Alcuni finiscono dentro a un casco, che rende impossibili le telefonate, altri addormentati con un tubo in gola, impossibilitati quanti altri mai a comunicare. Neanche la morte li libera dall'isolamento. Vietate le visite alle camere mortuarie, vietato il trasporto della salma a cassa aperta, vietati i funerali. Un lenzuolo imbevuto di candeggina, una benedizione all'aperto davanti al cimitero e via.
L'ospedale ha chiuso le visite ai parenti e i colloqui si svolgono per telefono.
La comunicazione medico-paziente e medico-parente è molto difficile e delicata sempre, ma in queste circostanze è un'impresa.


Noi medici odiamo le comunicazioni telefoniche e mai come ora il motivo mi si è reso evidente. Inizialmente pensavo che il divieto di fornire informazioni telefoniche fosse principalmente una questione legale di verifica dell'identità del parente, ma non è così. Per quanto possiamo parlare lentamente, cercare di utilizzare un lessico semplice e rispiegare più volte i concetti, le persone con cui ci interfacciamo comprendono un decimo di ciò che diciamo loro. Perchè sono agitati, perchè sono troppo concentrati a cercare di capirci e, ovviamente, perchè noi pensiamo di essere chiari e non lo siamo. Per di più l'unica cosa che tutti vogliono sapere, cioè se il loro caro si salverà, è l'unica cosa che evitiamo a tutti i costi di dire, perché non lo sappiamo.

Però la comunicazione ordinaria, faccia a faccia, funziona. Potrebbe andare meglio, molti di noi non sono bravi, ci sono problemi di tempo e di luogo, ma grossolanamente funziona e in gran parte lo fa grazie alla comunicazione non-verbale.
Il medico che si trova di fronte un parente può comprendere il suo stato d'animo dal volto, può intuire dall'espressione perplessa che non ha capito e rispiegare qualcosa anche se non gli viene esplicitamente richiesto, può confortare con una mano sulla spalla o può incoraggiare una domanda che vede affiorare alle labbra. Il parente che non capisce buona parte di ciò che il medico gli dice, invece, ha, nel colloquio di persona due grandi vantaggi: leggere sulla la faccia del medico se le notizie sono buone o cattive, e interpretare lo stato generale del malato vedendolo.
Nei colloqui telefonici noi medici restiamo unici occhi e dispensatori di conoscenza di chi sta all'altro capo del telefono e in pochi minuti dobbiamo riassumere concetti complessi senza alcun aiuto visivo e non-verbale. Come sintetizzare una serie di parametri in poche parole comprensibili a casa? Molto spesso non capiamo neanche noi come vadano i pazienti, figuriamoci se siamo in grado di spiegarci in modo facile. Ha una frequenza respiratoria leggermente più elevata di ieri, ha avuto di nuovo la febbre, l'ecografia sembra un po' meglio. È sostanzialmente uguale a ieri... ma loro il malato non l'hanno visto né ieri, né ieri l'altro e forse neanche una settimana fa, che significato dare a queste parole? Chi è a casa non ha mai visto un casco, una maschera da ventilazione, un paziente intubato, una terapia intensiva, ciò che gli raccontiamo è più che mai oscuro e quello che vorrebbero sapere non glielo diciamo. Ho perso il conto delle volte, in questi giorni, che mi sono sentita dire: "Guarirà?". E non conta quanto siamo espliciti nella comunicazione, chi ha qualcuno a cui tiene in ospedale cerca di appigliarsi a ogni condizionale per credere che andrà tutto bene, per cercare nella nostra voce un filo di speranza. Ieri il marito di una signora anziana che non sta andando affatto bene, alla terza ripetizione del "Non sta andando bene e se non migliora con il casco non abbiamo altre terapie a disposizione" mi ha risposto "Ma tra quanto tempo si può considerare fuori pericolo?" "C'è rischio che non ce la faccia?". Sì, c'è sempre rischio che non ce la facciano, quanto concreto vorrei saperlo anch'io.




Riccardo (nome di fantasia) ha 50 anni, è un po' sovrappeso come quasi tutti i nostri ricoverati Covid, ha sintomi da una settimana, ma è peggiorato improvvisamente, gli abbiamo messo un casco al volo, ma appena lo disconnettiamo respira malissimo. È giovane, sano, sappiamo tutti che merita una chance in più del casco, bisogna intubarlo e portarlo in rianimazione. Lui è inquieto, vorrebbe bere, vorrebbe togliere il casco, parlare con la moglie. Gli spieghiamo che non si può. Ciascuna di queste cose comprometterebbe la delicata operazione dell'intubazione e diminuirebbe significativamente le sue possibilità di sopravvivenza. Gli spieghiamo cosa faremo ed è spaventatissimo, dentro al suo casco rumoroso, mentre quattro omini blu di cui può intravedere solo gli occhi sotto una maschera di plastica gli urlano che respira troppo male e che è necessario addormentarlo, mettergli un tubo in gola e connetterlo a un respiratore per dare ai suoi polmoni la possibilità di guarire. Chiede se è proprio necessario. Sì. Chiede se avviseremo noi la moglie. Sì. Siccome tra gli infermieri che preparano i farmaci e l'anestesista che si appresta alla procedura sono la figura più inutile, cedo a Riccardo la mia mano da stringere. Mentre me la stritola mi fa la domanda che tutti noi speriamo di non ricevere mai: "Quante probabilità ho di svegliarmi?".
Un numero, conforto dell'era moderna.
A saperlo, un numero, e poi anche sapendolo, quanto è confortante un numero?
Per Douglas Adams, scrittore visionario di una trilogia di fantascienza nonsense in cinque parti, la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto è 42.
Ma quale sarà per Riccardo? Quale risposta mi conforterebbe se stessero per intubarmi? Come non comprendere la paura di chi si addormenta per non sapere se, quando e in che condizioni si sveglierà? Quanto è rassicurante avere come ultima immagine mentale quella di quattro camici azzurri, quattro visori di plastica con sotto due occhi e una maschera, mentre hai un casco in testa e senti solo il ronzio assordante dell'aria proveniente dal ventilatore?
Gli dò l'unica risposta possibile, quella che so essere per certo una bugia, ma spero sia almeno ciò di cui ha bisogno in questo momento: "Buone possibilità". Poi mi sento troppo in colpa e aggiungo "Lo facciamo perché è la cosa che le dà le maggiori possibilità di guarire".
Nelle varie leggi non scritte dell'ospedale c'è quella di non essere mai troppo ottimisti. Mai definire una notte "tranquilla" prima di sbollare, mai promettere che "andrà tutto bene". Non basta un arcobaleno al balcone per una profezia che si autoavvera.

Photo Courtesy of Giorgia


Riccardo è morto a meno di 24 ore da quel "Quante probabilità ho di svegliarmi" che mi appesantirà per sempre il cuore, ricevendo come ultima risposta la mia inutile rassicurazione.

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lunedì 30 marzo 2020

L'isolamento rumoroso dei pazienti Covid19

Vuoi essere libero Andrew? Ti importa molto esserlo? 
Andrew disse: -Vorreste essere schiavo, vostro onore? 
-Ma tu non sei schiavo. Tu sei un ottimo robot, un genio nel tuo campo, a quanto ho sentito, capace di creazioni artistiche che non hanno uguali. Cosa potresti fare di più se fossi libero? 
Forse niente, vostro onore, ma tutto quello che farei lo farei con maggiore gioia. In quest'aula ho sentito dire che solo un essere umano può essere libero. A me pare invece che chiunque lo desideri dovrebbe poter essere libero. E io voglio la libertà. (Isaac Asimov)
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Se il reparto ha cambiato aspetto, la sala medici ha subito una trasformazione netta: è diventata sala medici, studio del primario, cucina e zona relax. Tutto il tempo che passiamo fuori dalla zona rossa si concentra qui. In poco tempo, con il contributo di tutti, compaiono gli oggetti essenziali per sopravvivere: una macchinetta del caffè, un forno a microonde, una piccola dispensa. Ogni giorno arrivano pacchi solidali dagli esercizi ancora aperti: pizza, torte, una sera addirittura una vaschetta di gelato. Ci sono poche regole universali negli ospedali e una di queste è che il cibo è sempre bene accetto: nulla sarà accolto con più entusiasmo di qualcosa di buono con cui buttare giù il ventesimo caffè durante una pausa di tre minuti in un turno che sembra eterno. I messaggi che accompagnano i vassoi sono ancora più commoventi #andràtuttobene #aiutiamochiciaiuta, perfino un "non buttate il vassoio che vengo a riportarvelo pieno".


Photo Courtesy of Marcella
Più problematica è la gestione delle visite e in particolare la comunicazione interno-esterno. Nell'open-space (lo stanzone da 7 letti diviso dalla zona pulita da un lungo vetro) è stato installato un interfono: da fuori si può parlare a un microfono e la voce viene diffusa all'interno, da dentro, in teoria, i suoni vengono amplificati e riprodotti all'esterno. Se può essere sufficiente per gli allarmi dei ventilatori non lo è, però, per le nostre parole: sotto maschere e visor e con il rumore continuo dell'aria nei caschi e degli allarmi non basta sgolarsi per farsi comprendere da fuori. Il problema c'è sempre stato, ma è storicamente stato risolto con l'acquisizione di una grande abilità a sillabare attraverso il vetro e a leggere il labiale dal lato opposto. Con le mascherine neanche questa è un'opzione praticabile. La prima soluzione attuabile, la più rapida, è prendere appunti su un foglio e appoggiarlo al vetro affinché chi si trova all'esterno possa copiare/fotografare o leggere quanto scritto. Ciò implica, naturalmente, essere sempre due in turno.
Quando, però, a partire dal secondo giorno iniziamo a riempire le altre stanze, che non hanno un vetro, la situazione si complica. Bussiamo sulla porta per richiamare l'attenzione di chi si trova all'esterno, poi lasciamo scivolare un foglio sotto la porta e chi sta fuori (senza toccarlo) lo fotografa o ci porta il materiale necessario.
Sempre grazie all'intraprendenza del personale (e del primario) a facilitarci il compito compaiono dapprima un baby monitor, una di quelle radioline che si usano per controllare il sonno dei neonati, e dopo qualche giorno quattro coppie di walkie talkie.
Photo Courtesy of Fabio
La comunicazione tra noi migliora, ma rimane indispensabile la presenza di due medici in ogni momento: chi è dentro le stanze vestito da astronauta perde il senso del tempo ed è impossibilitato a gestire le relazioni con l'esterno. Programmare i ricoveri, rispondere alle telefonate, effettuare consulenze nei reparti covid a bassa intensità, tutto viene gestito da chi è fuori, mentre chi è dentro rappresenta le mani, occhi ed ecografo del medico all'esterno.
Image result for futurama robotDiverso tipo di isolamento subiscono i pazienti. Costretti ad abbandonare i familiari al triage, entrati in ospedale da soli, chiusi in un casco che li fa assomigliare a dei minions o a dei robot di futurama, visitati da personale di cui intravedono solo gli occhi, vivono ciascuno nel proprio rumoroso isolamento.
È difficile spiegare come funziona e a cosa serve il casco nel quale si vedono rinchiusi la maggior parte dei pazienti al telegiornale, ma ci provo lo stesso.

I polmoni funzionano alternando una piccola pressione negativa con una piccola pressione positiva; inspirando i nostri muscoli espandono il torace creando una piccola depressione che aspira l'aria nei polmoni e quando espiriamo si crea, all’inverso, una piccola pressione positiva che spreme l’aria fuori dal polmone.
La piccola pressione negativa necessaria ad aspirare l’aria può portare gli alveoli polmonari, quando sono malati, a chiudersi; così invece che espandersi e riempirsi di aria restano schiacciati e non partecipano alla respirazione: il sangue che li attraversa non viene ossigenato e non rilascia l’anidride carbonica.
Per prevenire questo collasso degli alveoli, ed anche per impedire che gli alveoli si riempiano completamente del liquido infiammatorio prodotto dalla polmonite Covid, è utile mantenerli un po’ gonfiati anche quando, inspirando, tenderebbero a chiudersi. Bisogna trovare il modo, cioè, di lasciare che il paziente respiri coi suoi muscoli e aspiri l’aria ad ogni atto respiratorio, ma che la pressione dentro gli alveoli non diventi mai negativa, come invece accade a noi quando respiriamo normalmente.
Questo modo lo si è trovato e si chiama CPAP continuous positive airway pressure, pressione positiva continua delle vie aeree. Come si fa?
Si mette il paziente dentro un casco a pressione positiva, dove l’aria entra da una parte grazie ad un erogatore, ed esce dall’altra attraverso una valvola regolabile con la quale si determina quanta pressione positiva deve esserci dentro il casco. Se il flusso di aria in entrata è molto maggiore del flusso col quale il paziente inspira, anche durante l’inspirazione il casco resta gonfio e in pressione e quindi anche l’inspirazione, che normalmente avviene a pressione negativa, avviene a pressione positiva; il paziente quando inspira crea una piccola depressione rispetto alla pressione positiva che c’è nel casco, così da determinare il flusso di aria verso i polmoni, ma questa depressione non è tale da rendere negativa in assoluto la pressione negli alveoli. Insomma, se il casco per esempio è gonfiato a +10, nell’alveolo la pressione invece che andare da -2 in inspirazione a +2 in espirazione va da +8 quando il paziente aspira l’aria a +12 quando la butta fuori, e questo previene il collasso degli alveoli.
L'effetto CPAP più semplice che possiate immaginare è respirare fuori dal finestrino di un'auto in corsa (ma vi sconsiglio di provarci se non volete finire decapitati).
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Il flusso d'aria necessario a mantenere una pressione positiva è molto alto e può essere ottenuto in due modi. Quello costoso e moderno è un ventilatore a turbina (o ad aria compressa): immaginatevi un minuscolo motore di un aereo che pompa aria in un tubo, voi regolate un parametro e lui eroga aria fino ad ottenere la pressione desiderata. Quello antico ed economico è un venturimetro: semplificando al massimo concetti di fisica che non credo abbiate voglia di ripassare, un flusso d'aria in un condotto stretto e forato genera un vuoto di pressione che richiama aria dall'esterno. Grazie all'effetto venturi un flusso di 10 litri al minuto convogliato nel giusto modo può generarne uno di 30 o 40. I caschi con venturimetro hanno una scatoletta che regola il flusso e si attacca al muro alle tubature dell'ossigeno, un filtro, un tubo corrugato che porta aria al casco, e una valvola di uscita.
Il problema è che i caschi sono rumorosi, ingombranti e fastidiosi. Immaginate di avere per tutto il giorno il ronzio del motore di un aereo, ma 10 volte più forte nelle orecchie. Di non poter bere, mangiare, grattarvi il naso o sistemare i capelli. Di avere degli spallacci sotto le ascelle che tengono fermo il casco a livello del collo e di avere tubi e protuberanze varie che sporgono dal casco e vi impediscono di trovare una posizione comoda per appoggiare la testa sul cuscino. Tutto questo per giorni e giorni. Così sono i nostri minions della subintensiva: sofferenti e giustamente insofferenti.
Così capitano anche episodi toccanti, come quello che racconta con queste parole la nostra infermiera Alessia:

la signora ti chiama
tu hai caldo (avvolta come un palombaro nei tuoi ormai compagni di viaggio, nonché migliori amici, DPI)
ti trascini verso di lei: "dica signora"
"mi vergogno un po' ma... vorrei solo UN ABBRACCIO!"
non puoi tirarti indietro e la abbracci, perché forse è anche quello di cui hai bisogno tu.
La conferma che questo COVID non colpisce solo il corpo.

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