lunedì 30 marzo 2020

L'isolamento rumoroso dei pazienti Covid19

Vuoi essere libero Andrew? Ti importa molto esserlo? 
Andrew disse: -Vorreste essere schiavo, vostro onore? 
-Ma tu non sei schiavo. Tu sei un ottimo robot, un genio nel tuo campo, a quanto ho sentito, capace di creazioni artistiche che non hanno uguali. Cosa potresti fare di più se fossi libero? 
Forse niente, vostro onore, ma tutto quello che farei lo farei con maggiore gioia. In quest'aula ho sentito dire che solo un essere umano può essere libero. A me pare invece che chiunque lo desideri dovrebbe poter essere libero. E io voglio la libertà. (Isaac Asimov)
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Se il reparto ha cambiato aspetto, la sala medici ha subito una trasformazione netta: è diventata sala medici, studio del primario, cucina e zona relax. Tutto il tempo che passiamo fuori dalla zona rossa si concentra qui. In poco tempo, con il contributo di tutti, compaiono gli oggetti essenziali per sopravvivere: una macchinetta del caffè, un forno a microonde, una piccola dispensa. Ogni giorno arrivano pacchi solidali dagli esercizi ancora aperti: pizza, torte, una sera addirittura una vaschetta di gelato. Ci sono poche regole universali negli ospedali e una di queste è che il cibo è sempre bene accetto: nulla sarà accolto con più entusiasmo di qualcosa di buono con cui buttare giù il ventesimo caffè durante una pausa di tre minuti in un turno che sembra eterno. I messaggi che accompagnano i vassoi sono ancora più commoventi #andràtuttobene #aiutiamochiciaiuta, perfino un "non buttate il vassoio che vengo a riportarvelo pieno".


Photo Courtesy of Marcella
Più problematica è la gestione delle visite e in particolare la comunicazione interno-esterno. Nell'open-space (lo stanzone da 7 letti diviso dalla zona pulita da un lungo vetro) è stato installato un interfono: da fuori si può parlare a un microfono e la voce viene diffusa all'interno, da dentro, in teoria, i suoni vengono amplificati e riprodotti all'esterno. Se può essere sufficiente per gli allarmi dei ventilatori non lo è, però, per le nostre parole: sotto maschere e visor e con il rumore continuo dell'aria nei caschi e degli allarmi non basta sgolarsi per farsi comprendere da fuori. Il problema c'è sempre stato, ma è storicamente stato risolto con l'acquisizione di una grande abilità a sillabare attraverso il vetro e a leggere il labiale dal lato opposto. Con le mascherine neanche questa è un'opzione praticabile. La prima soluzione attuabile, la più rapida, è prendere appunti su un foglio e appoggiarlo al vetro affinché chi si trova all'esterno possa copiare/fotografare o leggere quanto scritto. Ciò implica, naturalmente, essere sempre due in turno.
Quando, però, a partire dal secondo giorno iniziamo a riempire le altre stanze, che non hanno un vetro, la situazione si complica. Bussiamo sulla porta per richiamare l'attenzione di chi si trova all'esterno, poi lasciamo scivolare un foglio sotto la porta e chi sta fuori (senza toccarlo) lo fotografa o ci porta il materiale necessario.
Sempre grazie all'intraprendenza del personale (e del primario) a facilitarci il compito compaiono dapprima un baby monitor, una di quelle radioline che si usano per controllare il sonno dei neonati, e dopo qualche giorno quattro coppie di walkie talkie.
Photo Courtesy of Fabio
La comunicazione tra noi migliora, ma rimane indispensabile la presenza di due medici in ogni momento: chi è dentro le stanze vestito da astronauta perde il senso del tempo ed è impossibilitato a gestire le relazioni con l'esterno. Programmare i ricoveri, rispondere alle telefonate, effettuare consulenze nei reparti covid a bassa intensità, tutto viene gestito da chi è fuori, mentre chi è dentro rappresenta le mani, occhi ed ecografo del medico all'esterno.
Image result for futurama robotDiverso tipo di isolamento subiscono i pazienti. Costretti ad abbandonare i familiari al triage, entrati in ospedale da soli, chiusi in un casco che li fa assomigliare a dei minions o a dei robot di futurama, visitati da personale di cui intravedono solo gli occhi, vivono ciascuno nel proprio rumoroso isolamento.
È difficile spiegare come funziona e a cosa serve il casco nel quale si vedono rinchiusi la maggior parte dei pazienti al telegiornale, ma ci provo lo stesso.

I polmoni funzionano alternando una piccola pressione negativa con una piccola pressione positiva; inspirando i nostri muscoli espandono il torace creando una piccola depressione che aspira l'aria nei polmoni e quando espiriamo si crea, all’inverso, una piccola pressione positiva che spreme l’aria fuori dal polmone.
La piccola pressione negativa necessaria ad aspirare l’aria può portare gli alveoli polmonari, quando sono malati, a chiudersi; così invece che espandersi e riempirsi di aria restano schiacciati e non partecipano alla respirazione: il sangue che li attraversa non viene ossigenato e non rilascia l’anidride carbonica.
Per prevenire questo collasso degli alveoli, ed anche per impedire che gli alveoli si riempiano completamente del liquido infiammatorio prodotto dalla polmonite Covid, è utile mantenerli un po’ gonfiati anche quando, inspirando, tenderebbero a chiudersi. Bisogna trovare il modo, cioè, di lasciare che il paziente respiri coi suoi muscoli e aspiri l’aria ad ogni atto respiratorio, ma che la pressione dentro gli alveoli non diventi mai negativa, come invece accade a noi quando respiriamo normalmente.
Questo modo lo si è trovato e si chiama CPAP continuous positive airway pressure, pressione positiva continua delle vie aeree. Come si fa?
Si mette il paziente dentro un casco a pressione positiva, dove l’aria entra da una parte grazie ad un erogatore, ed esce dall’altra attraverso una valvola regolabile con la quale si determina quanta pressione positiva deve esserci dentro il casco. Se il flusso di aria in entrata è molto maggiore del flusso col quale il paziente inspira, anche durante l’inspirazione il casco resta gonfio e in pressione e quindi anche l’inspirazione, che normalmente avviene a pressione negativa, avviene a pressione positiva; il paziente quando inspira crea una piccola depressione rispetto alla pressione positiva che c’è nel casco, così da determinare il flusso di aria verso i polmoni, ma questa depressione non è tale da rendere negativa in assoluto la pressione negli alveoli. Insomma, se il casco per esempio è gonfiato a +10, nell’alveolo la pressione invece che andare da -2 in inspirazione a +2 in espirazione va da +8 quando il paziente aspira l’aria a +12 quando la butta fuori, e questo previene il collasso degli alveoli.
L'effetto CPAP più semplice che possiate immaginare è respirare fuori dal finestrino di un'auto in corsa (ma vi sconsiglio di provarci se non volete finire decapitati).
Image result for cpap casco


Il flusso d'aria necessario a mantenere una pressione positiva è molto alto e può essere ottenuto in due modi. Quello costoso e moderno è un ventilatore a turbina (o ad aria compressa): immaginatevi un minuscolo motore di un aereo che pompa aria in un tubo, voi regolate un parametro e lui eroga aria fino ad ottenere la pressione desiderata. Quello antico ed economico è un venturimetro: semplificando al massimo concetti di fisica che non credo abbiate voglia di ripassare, un flusso d'aria in un condotto stretto e forato genera un vuoto di pressione che richiama aria dall'esterno. Grazie all'effetto venturi un flusso di 10 litri al minuto convogliato nel giusto modo può generarne uno di 30 o 40. I caschi con venturimetro hanno una scatoletta che regola il flusso e si attacca al muro alle tubature dell'ossigeno, un filtro, un tubo corrugato che porta aria al casco, e una valvola di uscita.
Il problema è che i caschi sono rumorosi, ingombranti e fastidiosi. Immaginate di avere per tutto il giorno il ronzio del motore di un aereo, ma 10 volte più forte nelle orecchie. Di non poter bere, mangiare, grattarvi il naso o sistemare i capelli. Di avere degli spallacci sotto le ascelle che tengono fermo il casco a livello del collo e di avere tubi e protuberanze varie che sporgono dal casco e vi impediscono di trovare una posizione comoda per appoggiare la testa sul cuscino. Tutto questo per giorni e giorni. Così sono i nostri minions della subintensiva: sofferenti e giustamente insofferenti.
Così capitano anche episodi toccanti, come quello che racconta con queste parole la nostra infermiera Alessia:

la signora ti chiama
tu hai caldo (avvolta come un palombaro nei tuoi ormai compagni di viaggio, nonché migliori amici, DPI)
ti trascini verso di lei: "dica signora"
"mi vergogno un po' ma... vorrei solo UN ABBRACCIO!"
non puoi tirarti indietro e la abbracci, perché forse è anche quello di cui hai bisogno tu.
La conferma che questo COVID non colpisce solo il corpo.

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sabato 28 marzo 2020

Lavorare in Subintensiva al tempo del Covid19

Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. (La Peste, Albert Camus)


Se il cambiamento del pronto soccorso è stato progressivo e posticcio, quello della medicina d'urgenza del mio ospedale è stato rapido e definitivo.
Un giorno avevamo metà dei letti pieni di pazienti non-covid, il giorno successivo abbiamo avuto indicazioni di trasferirli in massa, quello ancora dopo avevamo gli operai a fare le modifiche.


Photo Courtesy of Fabio
Quando sono tornata per il primo turno di notte è stato un tuffo al cuore. Anche qui è sorto un muro dove non c'era, ma è intonacato e ha al centro una porta identica a tutte le altre con il cartello "accesso alla zona rossa". L'effetto è straniante come quello di certi sogni in cui sai benissimo dove sei e come dovrebbero essere le cose, ma quello che vedi è diverso dalla realtà.
Sono rimasti fuori dalla nuova porta due magazzini, la sala medici, lo spogliatoio medici e il bagno infermieri. Tutto il resto del reparto, compresa la cucina e i due studi, quello di segretaria e caposala e quello del primario, è stato svuotato e trasformato in stanze di degenza o in magazzini. In tutte le stanze è stato installato un circuito a pressione negativa, in breve significa che il ricambio d'aria dentro alle stanze è talmente rapido che quando si apre la porta l'aria entra sempre senza uscire mai e ciò garantisce un rischio minimo di fuoriuscita del virus. Inoltre sono state installate telecamere a infrarossi, per poter sorvegliare i pazienti anche con le porte chiuse, un interfono e sarebbero dovuti arrivare dei monitor per poter leggere i parametri vitali di tutti i pazienti da un'unica postazione pulita.

In terapia subintensiva vengono ricoverati i pazienti che hanno bisogno del ventilatore ma sono svegli. Pazienti che, cioè, vengono ventilati tramite maschere facciali o caschi. Queste procedure causano una importante aerosolizzazione (il virus viene sparato a distanza) e pertanto per assistere i pazienti servono le maschere filtranti e i camici impermeabili. 

A due giorni dall'inizio dei lavori il reparto è pronto, ma non ci sono maschere e camici a sufficienza per medici e infermieri. Rimaniamo fermi altri due giorni in attesa dei presidi, quando finalmente apriamo, sulla base della conta dei DPI (dispositivi di protezione individuale) ci danno indicazioni a ricoverare tre pazienti. Entro sera ne arrivano 7. In due giorni il reparto, ristrutturato per ospitare 10 pazienti, ne accoglie 14, uno in più dell'era pre-covid.
I monitoraggi che ci hanno promesso per i 6 letti rimanenti non arriveranno mai. Ci aggiustiamo recuperando qualche monitor portatile dal pronto e una colonnina parametri che abbiamo sempre avuto in reparto, ma un letto rimane completamente sguarnito. 

Le istruzioni iniziali sono tassative: non si può uscire e rientrare nelle stanze con i camici sporchi, non si può passare da una stanza all'altra con i camici sporchi, non si possono aprire le porte che per pochi secondi. Queste direttive durano meno di due turni: non reggono alla prova della penuria costante di mascherine.


Dal secondo giorno compare una riga per terra tracciata con lo scotch: la metà destra del corridoio è zona sporca: si può transitare da una stanza all'altra avanti e indietro con l'illusione di mantenere pulita l'altra metà. Le maniglie delle porte vengono disinfettate ogni 3 ore, tutto ciò che esce dalle stanze viene sanificato, un bagno è trasformato in locale svestizione.

Il mio primo turno nella subintensiva-Covid19 è una notte.

Mentre sono a casa ad aspettare di sapere dove e quando devo andare a lavorare, mi chiama una collega: "Siamo senza pile per i laringoscopi, se puoi valle a comprare e portarcene almeno 6 questa sera".
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Il laringoscopio è un attrezzo che si infila in gola ai pazienti addormentati per posizionare correttamente il tubo endotracheale. È costituito da un manico e da una lama d'acciaio. In cima c'è una luce che serve a illuminare la gola e guidare il posizionamento del tubo. Le pile scariche del laringoscopio sono il terrore di ogni anestesista... immaginatevi di avere un paziente addormentato e paralizzato e di dovergli cacciare un tubo in gola alla cieca mentre qualcuno vaga per il reparto alla ricerca di un altro laringoscopio o di pile nuove.
Ecco a noi oggi sono finite le pile di riserva e il magazzino non sa se e quando riuscirà a rifornirle. Trattandosi di un oggetto facilmente reperibile è più semplice e sicuro andare in ferramenta a comprarne una scorta che attendere novità dal magazzino. Sarà solo la prima delle tante pezze da mettere di questi tempi.

Il turno inizierebbe alle 22, ma mi chiamano prima: "Ci sono due ricoveri, vieni a darci una mano".
Percorro le strade deserte col mio motorino incrociando solo una pattuglia dei carabinieri e senza mai appoggiare i piedi per terra, un'unica tirata di 7 km.


Arrivo, recupero dal magazzino una tutina usa e getta pulita, mi cambio nello spogliatoio, cercando di passare indenne dalle scarpe (da riporre in apposita scarpiera) agli zoccoli (che stazionano su di un panno imbevuto di cloro). Anello, collana e orologio li ho lasciati a casa, altrimenti dovrei metterli e toglierli ogni volta che arrivo al lavoro. Mi lego i capelli (ho scelto un pessimo momento storico per farmeli crescere, ma tant'è) e mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica con la tecnica consigliata dall'OMS. Impacchetto il telefono con il cellophane: potrei lasciarlo fuori, ma mi serve per fotografare i documenti, quindi dopo attenta analisi ho scelto la pellicola per alimenti, che preserva il touch screen e la fotocamera e può essere buttato a fine turno, sollevandomi dall'incombenza di sanificare il telefono ogni volta.

Vado a recuperare una mascherina chirurgica, che devo tenermi cara per tutto il turno. Con questa tenuta posso stare nella sala medici/relax ed entrare nella zona rossa, a patto di mantenermi nella metà sinistra del corridoio ed entrare solo in medicheria o in magazzino.

Ho appena preso consegne che una paziente decide di disconnettersi il casco: qualcuno deve entrare per sistemarglielo, ma gli infermieri sono a fine turno e sprecheremmo del materiale per pochi minuti di utilizzo, così entro io.

Mi metto la cuffia di tessuto non tessuto (10 secondi)
Mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica (40 secondi)
Indosso il camice impermeabile chiudendolo dietro al collo e al fianco con un fiocco (30 secondi)
Mi metto la maschera filtrante (20 secondi)
Indosso il visor (5 secondi)
Mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica (40 secondi)
Metto i guanti della mia misura (15 secondi)
In ogni passo sono assistita da un infermiere che spunta la checklist e la firma al termine.

A questo punto faccio il mio ingresso trionfale nell'open space in cui alloggiano tutti e 6 i pazienti. Salvo la paziente del letto 4 dal soffocamento riconnettendo il casco al ventilatore, le spiego che anche se le manca il fiato è altamente sconsigliabile tentare di autorimuoversi il casco perché rischia di precipitare da una brutta sensazione di dispnea al soffocamento vero e proprio causato dal restare con la testa in un sacco di plastica dove non arriva aria.

Photo Courtesy of Giovanna
Sudo sotto il camice impermeabile e il visor. Farsi capire dai pazienti è una fatica: già normalmente per parlare con chi ha un casco bisogna urlare, se poi indossi anche una maschera e un visor è un'impresa. Compiutala, aspetto. Aspetto il cambio degli infermieri e il ricovero di un nuovo paziente che deve arrivare dal pronto soccorso. Corro su e giù a tacitare allarmi dei ventilatori, a sistemare caschi, a chiudere flebo, a riavviare motori di materassi antidecubito, a riposizionare saturimetri. A un certo punto non ho più niente da fare. Ma non posso uscire, dovrei rientrare per il ricovero e sprecherei del prezioso materiale. Non posso fare nulla, però, così bardata, a parte sedermi e aspettare. Dopo 40 minuti a fissare il vuoto giunge un infermiere a salvarmi. Iniziamo il giro letti, per sistemare per la notte un paziente alla volta. Mi colpisce quanto ci sia da fare e a quante cose noi medici non diamo peso, semplicemente perché ci pensa qualcun altro. Per dormire (o almeno provarci) il paziente deve essere ben sistemato nel letto, con le lenzuola che non facciano pieghe, con la coperta se la vuole, deve aver bevuto, essere stato rassicurato, le flebo non devono finire nel cuore della notte o suoneranno gli allarmi, i cateteri devono essere vuoti. Mille piccole premure che gli infermieri dispensano quotidianamente, mentre noi ci preoccupiamo di chiedere esami, cambiare terapie e visitare i pazienti.

Quando arriva il ricovero mi rendo conto di un altro problema al quale non sono abituata: nulla può uscire dalla stanza. Se il paziente entra con la cartella del pronto soccorso bisogna buttarla e ristamparla da capo, se entra senza devo visitarlo senza i dati precedenti. Devo ricordare a memoria parametri, ecografia e anamnesi, per poterli scrivere un'ora o anche tre dopo, quando uscirò dalla stanza. Sembra banale, e in effetti siamo abituati a ricordarci dettagli dei pazienti anche dopo molto tempo, ma quando hai una sola malattia da curare, tutte le storie si assomigliano. Mi aveva detto che aveva solo febbre o anche tosse? I sintomi saranno iniziati 7 o 10 giorni fa? E l'ecografia com'era? Era lui che aveva quell'addensamento basale o il suo vicino? E come avrò impostato il ventilatore?. Per la prima notte me la cavo con la memoria, anche perché il paziente è uno solo, ma a breve si renderanno necessarie altre strategie.

Dopo alcune ore passate dentro ho le vertigini, scoprirò poi che capita a molti, qualcuno lamenta invece cefalea. Sospettiamo che sia colpa delle mascherine che costringono a inalare più anidride carbonica del dovuto, ma potrebbe anche essere la fatica continua, il rumore, gli allarmi.
Finalmente, dopo quasi 4 ore, esco dalla stanza.
Rimuovo i guanti
Lavo le mani
Rimuovo il camice slegandolo di lato e accartocciandolo su se stesso toccandolo solo dall'interno
Lavo le mani
Rimuovo il visor toccandolo solo da dietro
Lavo le mani
Rimuovo la maschera (prima l'elastico inferiore)
Lavo le mani
Rimuovo la cuffia toccandola solo dall'interno
Lavo le mani
Rimetto la mascherina chirurgica 
Bevo mezzo litro d'acqua in un sorso solo
Vado a fare pipì
Riscrivo al pc tutto quello che ho fatto al nuovo malato ricoverato, chiedo gli esami, imposto la terapia, compilo la scheda di ingresso per la raccolta dati.
Muoio su una poltrona per circa un'ora.
Arriva il cambio, sospiratissimo.

Sempre nel pomeriggio la telefonata mi aveva avvisato: "La seconda cosa che devo dirti è che da oggi ci facciamo la doccia a fine turno, quindi portati un asciugamano e le ciabatte". Io, che di solito non faccio la doccia neanche in palestra, preferendo di gran lunga quella di casa mia, sono stranamente sollevata.
Non mi è piaciuto tornare a casa dall'ultimo turno e dovermi fiondare in bagno abbandonando i vestiti in ingresso. Non mi sono sentita protetta a mettere la giacca, il casco, i guanti, dopo aver visitato malati covid con l'esile protezione di un camicino usa e getta e una mascherina chirurgica.
Recupero il mio fedele accappatoio in microfibra e le ciabatte di plastica che mi hanno accompagnato nei peggiori ostelli del mondo e li infilo nello zaino, solo che non mi sto preparando a un viaggio in India, ma a un improbabile tour post-apocalittico, come quelli che ora organizzano al reattore nucleare di Chernobyl.


Il nostro spogliatoio si è trasformato in un bagno attrezzato: sono spuntati dei phon nettamente migliori di quello che ho a casa e sembra un po' di essere in piscina o alle terme... coda per la doccia a parte. Però questo clima un po' campeggio, un po' apocalisse ci sta rendendo tutti più uniti. Come dice una collega "Quando tutto questo sarà finito o saremo una grande famiglia o non ci potremo più vedere". Speriamo la prima.

Il resto del racconto e dei diari del reparto Covid sono disponibili qui

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mercoledì 25 marzo 2020

Lavorare in Pronto Soccorso al tempo del Covid19

La pace regnava sul mondo, le sentinelle non davano l’allarme, nulla lasciava presagire che l’esistenza sarebbe potuta cambiare. (Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari)
Photo courtesy of Giorgia
Nel corso delle settimane a partire da metà febbraio la coda in pronto soccorso si è accorciata sempre di più. Sono spariti prima i codici bianchi, poi si sono ridotti i codici verdi, e dalle classiche 4 ore di attesa siamo scesi a pochi minuti. I corridoi, di solito strabordanti di barelle, si sono svuotati. La notte un clima irreale calava sulle sale d'aspetto vuote.


Abbiamo vissuto a lungo un deserto dei Tartari, ma a differenza che nel classico di Buzzati, i tartari sono arrivati.

La prima ondata è stata più che altro di panico. Mentre in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna chiudevano le prime zone rosse, fuori dal nostro pronto soccorso si montava la tenda di pre-triage della protezione civile, quella dove gli infermieri muoiono di freddo a 4 ore alla volta vestiti come gli spermatozoi di "tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere".

Quel primo giorno siamo stati subissati di telefonate: "Il marito di mia cugina che fa il camionista è passato da Codogno ma senza fermarsi e poi ci ha portato un pacco di arance, potremmo esserci contagiati?", "Ho la febbre da tre settimane, devo fare il tampone?", "Il 1500 non mi risponde e il 112 mi ha attaccato quindi chiedo a voi". Chiunque avesse un numero interno dell'ospedale l'ha subissato di telefonate, rendendo impossibile l'attività ordinaria. Il centralino mi metteva in attesa, tutti i numeri interni per chiamare i consulenti erano staccati e io non sapevo come rintracciare lo psichiatra, il chirurgo, il vascolare o chiunque altro mi servisse per i miei pazienti non-Covid.




Lentamente il pronto soccorso si è adattato al crescente numero di casi sospetti. All'inizio erano così pochi che bastava la nostra stanza di isolamento per visitarli: l'infermiere mi chiamava dal triage, il paziente veniva accompagnato lungo un percorso esterno fino alla stanza di isolamento, nel frattempo mi bardavo (cuffia, calzari, camice impermeabile, maschera filtrante, visor, doppio paio di guanti), poi entravo nella stanza di isolamento, visitavo e interrogavo il paziente, uscivo, chiamavo l'unità di crisi per l'autorizzazione al tampone e, se c'erano dei criteri molto stringenti, chiedevo il tampone, altrimenti rimandavo il paziente a casa con la tachipirina.
Ben presto la stanza di isolamento non è stata più sufficiente e ci hanno dato 4 stanze al quarto piano (sempre accessibili da percorso dedicato) per ospitare fino a 16 pazienti.
E poi, mano a mano che i pazienti "normali" diminuivano, il covid si è mangiato quasi tutto il pronto soccorso.

Una notte sono andata al lavoro e c'era un muro. Un muro di mattoni a separare l'area covid da quella normale, o, come diciamo noi, lo sporco dal pulito, la zona dove devi vivere con mascherina, guanti, cuffia e camice di tessuto non tessuto da quella dove hai il privilegio di lavorare come un mese fa, con la tutina di stoffa e le mani libere.
Il muro, nota giustamente un collega, sembra quello della copertina di "the wall" dei Pink Floyd.


Ora la zona pulita ha 1 ambulatorio e 1 sala emergenza per 8 posti letto totali, mentre quella sporca ha 2 ambulatori, 1 sala emergenza e una sala di degenza per 18+4 posti totali. I percorsi sono completamente separati e anche la radiologia ha due spazi, separati da muri di nylon, uno per i pazienti puliti, l'altra per i sospetti covid. I pazienti vengono smistati al pre-triage (la famosa tenda) e accedono da due ingressi diversi.

Le due sezioni del pronto non hanno nessun contatto se non per telefono o per radio.
Per limitare al massimo lo spreco di materiale la scorta dei farmaci rimane nel pulito, mentre nella zona covid c'è un carrello emergenze con i soli farmaci e presidi essenziali. Per i farmaci mancanti si chiede alla radio.

"Isolamento a emergenza, passo"
"Qui emergenza, avanti isolamento"
"Serve un keppra in 250 di fisiologica, passo"
"Ricevuto isolamento, lo preparo, passo"
"Emergenza a filtro, passo"
"Qui filtro, avanti emergenza"
"Ti passo il Keppra deflussato, passo"
"Ricevuto emergenza, passo"
"Filtro a isolamento, passo"
"Qui isolamento, avanti filtro"
"Ti lascio il keppra, quando vuoi puoi aprire la porta, passo e chiudo"
Se la situazione non fosse drammatica sembrerebbe di stare a un campeggio scout.

Nel frattempo le indicazioni dell'organizzazione mondiale della sanità sono cambiate: per visitare i pazienti con covid sospetto o accertato basta la maschera chirurgica, il visor, un solo paio di guanti e il camice di tessuto non tessuto. La maschera filtrante e il camice impermeabile vanno riservati alle procedure più invasive (tampone, aerosol, ventilazione in maschera, intubazione). Di conseguenza nella stanza emergenza-isolamento-covid c'è sempre un infermiere per prestare assistenza ai pazienti eventualmente presenti, mentre il medico, che va su e giù tra gli ambulatori e la stanza isolamento si cambia di volta in volta.

Fuori dalla stanza di isolamento c'è il "filtro", una zona franca e semi-pulita con un infermiere che gestisce la radio ed è incaricato di fornire alla stanza di isolamento-covid tutto ciò di cui ha bisogno. Il Filtro fa da tramite tra l'emergenza pulita e l'emergenza-isolamento-covid e tra la degenza-covid e il resto dell'ospedale. Fa i bagni a letto ai pazienti il cui tampone è risultato negativo e che necessitano di ricovero in zone pulite dell'ospedale, sanifica tutto il materiale che esce dall'isolamento e lo prepara all'utilizzo successivo, invia le provette per gli esami e legge i referti alla radio. 

Quando sono dentro con un paziente, vestita come un astronauta, la sensazione di isolamento è totale, prendere fiato è faticoso sotto alla maschera filtrante, e il suono del respiro mi rimbomba nelle orecchie: mi sembra davvero di essere in una navicella spaziale ad anni luce di distanza da altri esseri umani.

Noi medici di pronto siamo abituati, nelle emergenze, ad avere moltissimi presidi e tantissime mani a disposizione: un paziente grave assorbe spesso tutte le risorse in turno e chiunque passi sa come dare una mano. Moltissime cose avvengono senza che ce ne rendiamo conto e senza una richiesta esplicita: gli infermieri e gli oss sanno benissimo cosa fare, chi cerca un accesso venoso, chi analizza l'emogasanalisi, chi spoglia il paziente e lo monitorizza, chi mette il catetere, chi fa l'ecografia, chi prepara i farmaci: è tutto molto efficiente e rapido. Invece nell'isolamento siamo due: un medico, un infermiere, un carrello emergenza, un attacco dell'ossigeno e un ventilatore. Possiamo chiedere cosa vogliamo, ma la latenza è notevole. Un altro paio di mani richiede 5 minuti di vestizione e 5 minuti, durante un'emergenza, sono eterni. Per chiamare l'anestesista bisogna spiegare alla radio il motivo, far chiamare da fuori e aspettare che l'anestesista a sua volta si vesta. I farmaci richiedono lo scambio radio di cui sopra, bisogna pensare in anticipo, ma anche evitare di sprecare materiale che una volta entrato non può più uscire.


Photo courtesy of Marida

In poco più di una settimana quel muro, che è diventato simbolo della nostra lotta, si è riempito di firme e graffiti. Ci ricorda che siamo uniti, anche se non possiamo toccarci e per riconoscerci dobbiamo parlarci, perché l'unica cosa che spunta dalle divise sono gli occhi e i maschi barbuti si sono rasati per far aderire meglio le mascherine. Già si parla di quando lo abbatteremo, quel muro: chi dice a martellate, chi a pugni, chi a testate. Di quando sgonfieremo la tenda e potremo abbracciarci.

Il resto del racconto e dei diari del reparto Covid sono disponibili qui


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