venerdì 20 giugno 2003

La Buona Novella

L'articolo è stato pubblicato nel giornale del liceo d'Azeglio "l'impronta" nel 2003


L’uscita nelle sale cinematografiche del film “la passione di Cristo” diretto da Mel Gibson, ha suscitato un’infinità di polemiche, critiche, dibattiti, ricerche storiche, filologiche e archeologiche nel merito delle quali non è in ogni caso mia intenzione addentrarmi; ma ha anche avuto una seconda conseguenza, positiva o negativa a seconda dei punti di vista. Ha infatti riportato alla luce uno dei problemi fondamentali che i teologi cristiani, ma anche i semplici fedeli, si pongono da duemila anni a questa parte, ovvero la ricostruzione e l’interpretazione della vita e della morte di Gesù Cristo.
Sono stati quindi riproposti libri e film che negli anni passati hanno trattato questo argomento, una pellicola addirittura, “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini, è stata recuperata dal dimenticatoio, restaurata e proiettata nuovamente in alcuni cinema. Non si sa cosa abbia di più il film di Gibson rispetto al suddetto, forse il fatto che sia stato ideato da un americano? Forse che sia stato girato oggi anziché nel 1964? Non saprei dirlo, però indubbiamente la Passione ha suscitato più clamore di altri film dello stesso genere che sono stati ora riproposti per motivi di mercato o (sono più incline a sperare) per la necessità di operare un confronto.
Davanti all’opera di Gibson molti si sono improvvisamente ricordati di essere cristiani e, usciti dalla sala, sono corsi a leggere i vangeli; molti altri sono inorriditi al pensiero che qualcuno abbia potuto trasformare il caposaldo della fede cristiana in una cosa così blasfema come un film, senza ricordare che altre persone in altri tempi lo hanno fatto, forse con meno successo, ma con la stessa determinazione del regista americano.
A tutti costoro vorrei raccomandare “La buona novella”, uno dei dischi meno conosciuti e più belli di Fabrizio De Andrè. Al momento della sua uscita nel 1970, questo disco non fu apprezzato né dai più conservatori, a causa della visione molto poco divina di Gesù, né dai sessantottini, che ritennero la predicazione della pace e della tolleranza molto anacronistiche per un periodo di lotta studentesca. In realtà, come lo stesso De Andrè avrebbe affermato in seguito: “Non avevano capito che in effetti la buona novella è un’allegoria che paragona le istanze migliori della rivolta del ’68 con quelle della vita di Cristo, queste ultime da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate, ma dal punto di vista etico-sociale molto simili alle prime”.
Questo disco rimase sempre molto caro a Fabrizio che giunse a riproporre ben cinque degli otto brani in esso contenuti, nella sua ultima tournè.
Bisogna notare, però, che De Andrè non aveva nessun fine religioso nel comporre le sue canzoni e, a differenza di Gibson, cristiano fondamentalista, si è basato interamente sui vangeli apocrifi. I vangeli apocrifi erano quei testi che le prime comunità cristiane facevano leggere solo agli iniziati in quanto ritenuti di difficile comprensione e interpretazione; solo in seguito, con l’elezione dei vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni a Canonici, gli apocrifi furono ritenuti falsi dalla Chiesa di Roma. I vangeli apocrifi narrano eventi estranei ai canonici: l’infanzia di Maria, la storia di Giuseppe, di Erode e di Pilato e, pur operando al di fuori della Chiesa, hanno lasciato tracce profonde nella tradizione cristiana, come testimoniano la narrazione della nascita di Gesù, i nomi dei Magi, la via crucis e l’uso del termine “madre di Dio” del tutto assenti, o appena accennati nei vangeli canonici.
Anche Gibson, quindi, per quanto affermi di essersi rifatto unicamente ai vangeli canonici (e a sua discolpa, per chi lo accusa di aver presentato gli ebrei come popolo deicida, si può dire che il processo di Gesù segue pedestremente il vangelo di Giovanni) ha dovuto, magari non appositamente, rifarsi a quella tradizione che vuole che Gesù sulla strada per il calvario, sia caduto tre volte e tre volte si sia rialzato.
De Andrè, però, utilizza i vangeli apocrifi per tutt’altro motivo, ecco, infatti la sua dichiarazione: “scelsi i vangeli scritti da autori armeni, bizantini, greci, perché erano una versione laica della storia di quell’eroe rivoluzionario che era Cristo, che predicava la fratellanza universale. Solo che Marco e gli altri erano un po’ l’ufficio stampa, gli apocrifi, invece, vanno a ruota libera. I sinottici risentono dell’influenza del Vecchio Testamento. Negli altri c’è più umanità”.
Un Gesù umano, quindi, quello del cantautore genovese, non storico (non c’è infatti alcuna pretesa di autenticità), ma semplicemente umano. Il percorso che De Andrè compie, non tende al sacro, anzi, come mostrano il prologo e l’epilogo, si va da un “laudate dominum” iniziale a un “laudate hominem” finale, dalla religione di Dio alla religione dell’uomo. In definitiva De Andrè non si distacca dalla sua visione giovanile del cristianesimo che lo aveva portato ad affermare in “si chiamava Gesù”: “non intendo cantare la gloria/ né invocare la grazia o il perdono/ di che credo non fu altri che un uomo/ come Dio passato alla storia/ ma inumano è pur sempre l’amore/ di chi rantola senza rancore/ perdonando con l’ultima voce/ chi lo uccide fra le braccia di una croce”.
I primi tre brani de La buona Novella: “L’infanzia di Maria”, “il ritorno di Giuseppe” e “il sogno di Maria” seguono la narrazione del protovangelo di Giacomo, con toni calmi e sognanti. Chiave di volta dell’album è “Ave Maria”, caratterizzato da musiche soavi e parole dolci, che rispecchiano la felice situazione di Maria incinta, ma il brano successivo, tralasciando completamente l’infanzia e la predicazione di Gesù, si apre con il ribattere funereo di una bassissima nota sul pianoforte, a simulare il suono di un martello, persistente nel buio e nel silenzio della notte. E’ “Maria nella bottega di un falegname” in cui l’atmosfera si fa più cupa, dall’immagine dei soldati mutilati da una guerra crudele a quella dei condannati a morte che “disertarono per rubare” e di colui che “guerra insegnò a disertare”; soltanto alla fine della penultima strofa il falegname trova il coraggio di rivelare a Maria che delle tre croci: “la più grande che tu guardi abbraccerà tuo figlio”.
Immediatamente l’atmosfera serena delle prime canzoni è dissolta e d’ora in avanti il disco procederà in un crescendo di disperazione man mano che ci si avvicina alla passione. Anche il lessico, prima moderato e quasi religioso si fa sempre più crudele e sprezzante. In “Via della croce” accanto a versi sublimi come “ben più della morte che oggi ti vuole/ ti uccide il veleno di queste parole” fanno da contraltare altri ben più dissacranti: (degli apostoli) “a redimere il mondo gli serve pensare/ il tuo sangue può certo bastare”; “nessuno di loro ti grida un addio/ per esser scoperto cugino di Dio”; (dei ladri) “perdonali se non ti lasciano solo/ se sanno morire sulla croce anche loro”.
“Tre madri” può considerarsi l’acme del disco, con uno stile che è ormai distante mille miglia da quello dei vangeli (sia canonici sia apocrifi) il cantautore immagina il Golgota quando ormai la folla rumoreggiante si è sparpagliata, i romani hanno abbandonato i condannati alla loro sorte e, ai piedi delle croci, non sono rimaste che le madri dei ladri e Maria. Le donne si alternano in canti di commiserazione e autocommiserazione, finchè, con tono appassionato e infinitamente disperato, Maria conclude: “non fossi stato figlio di Dio/ t’avrei ancora per figlio mio”.
“Il testamento di Tito” infine, è una completa invenzione di De Andrè che mette in bocca al ladro buono una lettura provocatoria dei dieci comandamenti, singolarmente smontati e smascherati fino a mostrare, sotto la loro apparente giustizia, l’ipocrisia con la quale se ne servono i farisei. Ma questa canzone, che a prima vista appare come blasfema e dissacrante, rivela, nell’ultima strofa, un messaggio positivo: è la conversione di Tito che afferma “io, nel vedere quest’uomo che muore/ madre io provo dolore/ nella pietà che non cede al rancore/ madre ho imparato l’amore”. E’ a questo punto che si possono vedere, attraverso la polemica di Tito, gli insegnamenti stessi di Gesù che, fra le altre cose, guarì un uomo di sabato, violando la legge divina perché “la legge permette di fare del bene a qualcuno anche se è sabato” (Mt 12,12).
Ed è questo che, a mio parere, manca al film di Gibson che, pur chiudendosi con la resurrezione, rimane di un cupo pessimismo: manca un chiaro riferimento a quello che è il più grande messaggio di Gesù: la tolleranza, il più grande comandamento: ama il prossimo tuo come te stesso.

venerdì 14 febbraio 2003

IL DIZIONARIO


Li vedi davanti alla scuola, prima di entrare; lo tengono in braccio teneramente, come un bambino. Qualcuno ci appoggia il mento, stanco di sonno; qualcuno se lo stringe forte al petto, per ripararsi dall’aria gelida mattutina, altri vi si aggrappano come ad una speranza, sostenendolo e facendosi al tempo sostenere. Qualcuno lo tiene sottobraccio come un compagno inseparabile, qualcuno lo bacia sulla copertina o sulla costa delle pagine, per augurio o per scaramanzia. Qualcuno lo tiene per la costa, con una mano sola, come se non ne avesse bisogno, in realtà non sa separarsene. Qualcuno controlla le pagine in cui ha scritto gli appunti. Ognuno ha il suo e ne è geloso. 
Nessuno lo presta al vicino di banco senza un minimo di dispiacere. 
“Chissà che ne farà ora, guarda! Sta piegando le pagine quel disgraziato! Poverino, gli farà male! No eh, non azzardarti a tirare le linguette a quel modo sai?… “ 
“ Me lo ha ridato, finalmente. Poverino, ti ha maltrattato quel bruto? Non ti lascerò mai più in balia di quelle manacce.” 
Poi entra il professore, consegna la versione e l’incanto svanisce. Esso diventa uno strumento. Tutti sfogliano velocemente le pagine, senza preoccuparsi di stropicciarle, cercano di arrivare il più in fretta possibile al lemma desiderato, e se non lo trovano gli addossano la colpa. Lo prenderebbero a calci se non rischiassero di passare per pazzi. 
E se trovano ciò che cercano non sono minimamente grati nei confronti di “colui” che dieci minuti prima sbaciucchiavano. 
All’uscita ci sono emozioni discordanti: c’è chi ha trovato tutte le parole, ha tradotto bene e lo accarezza. C’è chi non è riuscito a trovare alcune parole, lancia insulti, se la prende con lui, lo maltratta, vorrebbe scagliarlo dall’altro lato della strada, ma ad impedirglielo, questa volta, è il suo buon senso: “dopo tutto l’altra versione è andata bene, e poi che farei senza di lui?” 
E, infine, c’è chi ha trovato tutte le parole, ma non ha compreso la sintassi e se la prende con lui ugualmente perché gli appunti al suo interno non erano chiari, o più semplicemente perché rappresenta la materia in quei momenti tanto odiata. 
Non c’è scampo, come le persone, anche i dizionari sono costretti a subire lodi o ingiurie, per ciò che fanno e per ciò che sono.

LA PRIMAVERA


Il mio lavoro, se di lavoro si tratta, è un po’ strano; assomiglia a quello dei manichini nei grandi magazzini: vedi tanta gente che passa, ma raramente i clienti si fermano a guardare i manichini, io invece sono sempre al centro dell’attenzione. 
Ora posso dirvelo, lavoro in uno die più famosi musei del mondo: gli uffizi di Firenze. Insomma, il mio compito è di stare tutto il giorno ferma a lasciarmi guardare da quelli che passano, e siccome non ho altro da fare, osservo. 
Con l’esperienza sono diventata molto abile e posso vedere tutta la sala senza farmi scorgere, non come la mia collega Monna Lisa che ogni tanto gira gli occhi: si sono dovuti persino inventare la storia dell’illusione ottica per giustificarla, ma non è vero niente! 
Io, invece, sono una vera esperta: non muovo mai un muscolo, ma vedo tutto. E’ interessante vedere le persone che passano, ce ne sono di tutti i tipi. 
C’è quello con in mano una guida che si sofferma solo sui quadri che vi sono descritti e non vede con i suoi occhi, ma con quelli dell’autore della guida. Poi c’è la famigliola, formata di solito da mamma, papà e due bambini piccoli, un maschietto e una femminuccia; il papà cerca di spiegare ai figli i quadri e loro vogliono salirgli sulle spalle per vedere meglio, la madre, intanto, vaga per la sala esclamando ogni tanto: “Guarda che carino questo! Che labbra delicate che ha questa signora!” e commenti simili. Più di una volta sono stata tentata di rispondere grazie ai complimenti di queste mamme, ma poi ho rinunciato, avrei seminato il panico! 
Poi ci sono quelli che non si soffermano più di trenta secondi ad osservare un quadro, e solo quelli grossi, che quelli piccoli, passando, non li notano neanche, più volte i miei colleghi dei quadri piccoli si sono offesi al passaggio di questi scattisti. Per fortuna, però ci sono gli sfaccendati, che non sanno come passare il pomeriggio o gli hanno regalato il biglietto e vagano, in ogni sala si fermano mezz’ora, guardano tutti i dipinti, leggono il cartellino, si avvicinano per osservare la pennellata e, alla fine, ammirano anche l’estintore e l’interruttore della luce. 
Ci sono le scolaresche, che sono le più spassose: di solito l’insegnante di storia dell’arte cerca di spiegare fin nei minimi dettagli ogni quadro, l’attenzione generale dura, in media, fra i cinque e i sette secondi, poi i più interessati rimangono a sentire, altri iniziano a raccogliersi in gruppetti e a fare commenti sarcastici sul quadro o a parlare di tutt’altro. E’ grazie a loro che ho imparato come funziona il mondo di fuori, ora so cos’è un cellulare un impianto HI-FI, conosco i gruppi musicali più in voga, anche se non li ho mai sentiti, chissà se useranno ancora il cembalo? 
Ci sono anche delle scolaresche anomale, dove sono gli studenti che cercano di esporre ai loro compagni; di solito non sono molto preparati e cercano di sbirciare gli appunti che hanno preso, oppure sanno tutto a memoria perché l’hanno letto sull’enciclopedia e sono i primi a stupirsi di ciò che vedono. 
Vengono spesso anche scolaresche straniere e grazie a loro ho imparato quasi tutte le lingue del mondo. Ci sono anche le famiglie che hanno la sventura di avere uno dei genitori esperto d’arte; questi parla e i figli sono costretti a stare a sentire, non si possono staccare come le classi e non possono parlare d’altro fra loro, poverini, mi fanno un po’ pena! 
Altre persone interessanti sono le coppiette. Ci sono coppiette di tutti i tipi: giovanissime, giovani e non più giovani. Ci sono le coppie di ragazzini, che di solito facevano parte di una comitiva, ma si sono distaccati per godere di un po’ d’intimità e si baciano guardando i dipinti solo di sfuggita. Ci sono gli sposi novelli, magari in viaggio di nozze, che si tengono per mano e sussurrano parole dolci, non si soffermano mai sui quadri che raffigurano battaglie, solo su quelli che parlano d’amore. 
E poi ci sono i vecchietti, che cari, arrivano, piano piano, si fermano, guardano, si guardano, ricordano… ricordano quando anche loro erano giovani e si erano baciati davanti a quel quadro… poi se ne vanno. 
Ci sono anche gli artisti, o gli apprendisti tali, che vengono, armati di matita e blocco da disegno, si siedono su una panca anche per tre o quattro ore e disegnano, disegnano, non ho mai visto il risultato però, peccato! Chissà se vengo somigliante? 
E poi ci sono i patiti della fotografia, che non si accontentano di vedere per ricordare, ma devono assolutamente fotografare. Allora cercano di ingegnarsi per fare le foto senza flash: si appoggiano sulle spalle di un volontario, su una colonna, su un muro. Alcuni si portano persino il cavalletto. A questa categoria appartengono in primo luogo i giapponesi; devono andare pazzi per la allegre foto di famiglia, quegli ometti! Arrivano comitive di centinaia e centinaia di nipponici armati di fotocamera digitale e iniziano a fare foto di gruppo su foto di gruppo, con i quadri come sfondo. 
E infine c’è Lui. 
E’ un bel ragazzo, tanto che appena è entrato le tre grazie, qui a fianco, si sono tirate delle grandi gomitate e hanno assunto una posa più attraente. Ma Lui non ha occhi che per me, ormai è un mese che viene, ogni giorno, al mattino, si siede sulla panca davanti al mio quadro e sta fermo. Mi guarda. 
Non smette fino alla sera, a ora di chiusura. 
Secondo le tre chiacchierone qui a fianco è innamorato di me. Ma con tanti bei quadri che ci sono figurarsi se… 
Basta. Ho deciso. Domani gli parlo. Non penso che sia un tipo impressionabile, probabilmente gli sembrerà perfettamente normale che la Primavera parli. Chissà, forse ne nascerà una bella amicizia. 
Ehi, voi tre, cos’avete da ridere?