Per più esami mi è capitato di confrontare i miei appunti con sbobine di anni passati (generalmente del 2003-2004) e mi sono accorta di questo inquietante fatto: indipendentemente dal professore, spiegazioni, esempi, frasi, battute sono identiche a quelle sentite in classe a quattro anni di distanza.
Questo mi ha fatto per l’ennesima volta pensare all’analogia tra il mestiere di professore universitario e di attore. Ogni giorno davanti a una platea sempre diverso a recitare lo stesso pezzo, occasionalmente aggiustato qua e là, come è lecito a chi ne è l’autore, suscitando curiosità in attesa della reazione prevista o non prevista del pubblico-studente. Probabilmente anche i professori come gli attori sono in grado di percepire da piccoli segnali l’umore dell’uditorio, sanno già quante battute andranno perse, con quanta enfasi bisognerà caricare le parole perché penetrino, se ci saranno domande. Già, perché anche le domande si susseguono uguali di anno in anno e quelle fatte dai miei colleghi di quattro anni fa sono mostruosamente, sconcertantemente simili alle nostre. Certo il tutto è spiegabile considerando che le domande altro sono sono che reazioni di un pubblico omogeneo alle sollecitazioni impostegli. Tanto di cappello dunque ai professori che alla duemillessma replica del proprio show non fanno trapelare stanchezza alcuna, ma con un’abilità di consumati veterani del palcoscenico sono ancora in grado di suscitare emozioni nell’uditorio come fosse la prima volta.
Non posso fare a meno di chiedermi però cosa provi un professore entrando in classe tutte le mattine, assumendo la propria priandelliana maschera e iniziando a recitare la commedia quotidiana, sempre uguale giorno dopo giorno, mese dopo pese, anno accademico dopo anno accademico.
Daniel pennac professore-scrittore e infine attore per caso del proprio monologo “Grazie” descrive la propria esperienza teatrale così
“Dopo qualche rappresentazione il testo cominciò a scorrere quasi indipendentemente dalla mia volontà. La voce era mia, i gesti erano miei ma io non c’ero più. Eppure quello sul palcoscenico non era un altro, ero proprio io, ma un io talmente corazzato contro gli imprevisti da aver inserito il pilota automatico: tutto scattava a comando, quello recitava la sua parte per cinquantacinque minuti, dava l’impressione di rivolgersi agli spettatori, ripeteva il testo senza pensarci, inanellando i paragrafi in ordine impeccabile, muovendosi, dissertando, ridendo, grugnendo, imprecando, lamentandosi, ringraziando[…] insomma a furia di italiane il testo mi aveva invaso e io avevo smesso di abitarlo.”(D. Pennac, “L’Avventura teatrale”, Feltrinelli, 2007)
Penso a quanti professori universitari abbiano scelto coscientemente di insegnare (mi rispondo: pochissimi) e quanti invece si siano ritrovati “per meriti accademici” risucchiati nel vortice spazio-temporale dell’insegnamento volenti o nolenti.
Sì, perché immaginato dal punto di vista del docente l’insegnamento è uno strappo nel tessuto dell’universo, una vita che costringe a rivivere ogni giorno da capo allo stesso modo, mentre il tempo passa solo per te e gli altri restano immutabili. Ti ritrovi a tenere le stesse lezioni ogni anno con le stesse parole a degli eterni ventenni che non invecchiano mai, ti pongono sempre le stesse domande a cui rispondi meccanicamente. I
l tutto dà all’atmosfera i colori del deserto dei Tartari: un ufficiale-professore che si ritrova risucchiato dalla routine dell’insegnamento e quando si rende conto di star invecchiando è troppo tardi per congedarsi, la vita fuori non è più possibile perché tutto il resto è cambiato mentre l’ufficiale è sempre lo stesso, solo invecchiato. La vita non si è fermata ad aspettarlo, il treno è partito ed è tardi per rincorrerlo.
Per questo i professori sono così restii ad abbandonare la propria cattedra-avamposto, sono convinta che ogni anno si ripetano “questo sarà l’anno buono, dimostrerò che tutta questa attesa ha avuto un senso, quest’anno i tartari attaccheranno”.
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