La Gioconda? Probabilmente aveva il colesterolo alto e i trigliceridi alle stelle. E già: se il suo sorriso enigmatico ha ispirato fiumi di inchiostro, se per lei si sono scomodati critici, storici, psicologi, studiosi di esoterismo, pochi si sono soffermati sullo «xantelasma» nell’incavo dell’occhio sinistro, un accumulo di adipe sottocutaneo, e sul lipoma che ingrossa la mano in primo piano, sintomi entrambi di un eccesso di grasso. E se la Madonna del Parto di Piero della Francesca è palesemente incinta, meno esplorato è il gozzo sul suo collo, malattia endemica tra i contadini del Medioevo che bevevano acqua piovana raccolta nelle cisterne.
Capolavori con l’artrite, con la scoliosi, con la tiroide ingrossata, con i calcoli renali, con il tumore. Capolavori passati al setaccio dagli iconodiagnosti, gli specialisti di una nuova disciplina: medici che si divertono a cercare i sintomi delle malattie su madonne estatiche ed eroi del mito, su putti dormienti e nobiluomini in posa per il ritratto. Un divertissement diventato branca di studi, che vede tra i pionieri in Italia Vito Franco, docente di Anatomia patologica all’Università di Palermo. L’unico ad aver parlato degli acciacchi segreti di personaggi dell’arte all’ultimo Congresso della Società europea di Anatomia patologica. E autore di una ricerca che passa in rassegna un centinaio di opere più o meno famose, dalle sculture egizie ai dipinti contemporanei, raggruppate per tipo di malattia: da quelle osteo-articolari ai disturbi endocrini, dalle malformazioni alle patologie neurologiche, dai problemi di metabolismo a quelli della pelle.
E l’effetto è sorprendente. Anche i più celebri pezzi sono in grado di rivelare aspetti inediti. «La malattia sta dentro al corpo - dice Vito Franco - non è una dimensione metafisica o sovrannaturale. E i personaggi raffigurati svelano la loro fisicità, ci raccontano della loro umanità vulnerabile indipendentemente dalla consapevolezza del loro autore». Sta tutto nel labile confine tra coscienza e incoscienza dell’artista il gioco più interessante dell’iconodiagnostica. Nell’arte moderna e contemporanea, volti emaciati e corpi sofferti sono strumento espressivo o simbolico. Ma spesso, invece, le malattie dei personaggi restano segrete al loro stesso creatore, che se ne fa portatore inavvertitamente.
Materiale prezioso per coloro che di malati in carne e ossa ne hanno visitato tanti. E che adesso si lanciano nella sfida di fare una diagnosi senza interrogare il paziente, richiedere analisi del sangue o auscultare il torace. Ecco allora, per esempio, che sull’«Amorino dormiente» di Caravaggio, custodito a Palazzo Pitti, si è scatenata una diatriba scientifica: ha l’artrite reumatoide giovanile o è rachitico? E se il botticelliano «Ritratto di giovane» della National Gallery di Washington emana un’eleganza quasi femminea, di sicuro è malato di aracnodattilia, cioè ha le dita troppo lunghe e sottili, come le zampe di un ragno. La stessa patologia di cui soffre la Madonna del collo lungo del Parmigianino esposta agli Uffizi, antesignana delle donne di Modigliani. La quale, a scorrere il lavoro di Vito Franco, forse era affetta dalla sindrome di Marfan, un disturbo ereditario che colpisce le ossa, i legamenti, gli occhi, il sistema cardiovascolare.
Nella Scuola di Atene, il dipinto celeberrimo di Raffaello dei Musei Vaticani, il malato è Michelangelo, ritratto in basso a sinistra, seduto sulle scale, curvo, con le ginocchia gonfie e tumefatte.
«Sembrano indicare - dice Franco - un eccesso di acido urico, tipico di chi soffre di calcolosi renale. E d’altronde lui per mesi e mesi si nutrì solo di pane e vino, lavorando giorno e notte al suo capolavoro, la Cappella Sistina». E che dire del «Las Meninas» di Velazquez custodito al Prado? Ebbene, la famiglia di Filippo IV, oltre a essere una miniera di simboli e di raffigurazioni, è anche un bel catalogo di malattie: la piccola Margherita, al centro della scena, avrebbe la sindrome di Albright, una patologia genetica rara che si manifesta con la pubertà precoce, la bassa statura, il gozzo. E non se la passano meglio, sulla destra, Maribarbola e Nicolasito, affetti entrambi da nanismo.
Nella sala d’aspetto virtuale di Vito Franco c’è pure una sfilata di malattie e disfunzioni sessuali: è il caso di uno dei primi ermafroditi mai ritratti (Sant’Onofrio, in un affresco dell’ottavo secolo nella chiesa copta della Cappadocia) e dell’inquietante «Mujer Barbuda» di José de Ribera, dove un uomo con barbone nero e cappello porge il seno a un lattante.
Ci sono anche casi in cui l’iconodiagnosta riesce a visitare il suo paziente due volte, e a distanza di tempo: è il caso di Dick Ket che nel 1939 si ritrae con le dita a bacchetta di tamburo, segno di una grave patologia polmonare. «In un dipinto di sette anni prima - dice Franco - ha le dita meno sformate ma presenta un turgore anomalo delle vene del collo, segno della stessa sindrome ma in fase iniziale».
Una relazione, quella tra arte e malattia, che diventa centrale se il paziente è l’artista, se è lui a soffrire, se è lui a guardare e ritrarre il mondo con gli occhi alterati dal dolore: succede in Van Gogh, in Frida Kahlo, e pure in Toulouse Lautrec, figlio di cugini di primo grado, molto basso, con le orecchie a punta, il mento piccolo, le dita corte. Creatori di grandi opere. E di casi clinici complessi.
Capolavori con l’artrite, con la scoliosi, con la tiroide ingrossata, con i calcoli renali, con il tumore. Capolavori passati al setaccio dagli iconodiagnosti, gli specialisti di una nuova disciplina: medici che si divertono a cercare i sintomi delle malattie su madonne estatiche ed eroi del mito, su putti dormienti e nobiluomini in posa per il ritratto. Un divertissement diventato branca di studi, che vede tra i pionieri in Italia Vito Franco, docente di Anatomia patologica all’Università di Palermo. L’unico ad aver parlato degli acciacchi segreti di personaggi dell’arte all’ultimo Congresso della Società europea di Anatomia patologica. E autore di una ricerca che passa in rassegna un centinaio di opere più o meno famose, dalle sculture egizie ai dipinti contemporanei, raggruppate per tipo di malattia: da quelle osteo-articolari ai disturbi endocrini, dalle malformazioni alle patologie neurologiche, dai problemi di metabolismo a quelli della pelle.
E l’effetto è sorprendente. Anche i più celebri pezzi sono in grado di rivelare aspetti inediti. «La malattia sta dentro al corpo - dice Vito Franco - non è una dimensione metafisica o sovrannaturale. E i personaggi raffigurati svelano la loro fisicità, ci raccontano della loro umanità vulnerabile indipendentemente dalla consapevolezza del loro autore». Sta tutto nel labile confine tra coscienza e incoscienza dell’artista il gioco più interessante dell’iconodiagnostica. Nell’arte moderna e contemporanea, volti emaciati e corpi sofferti sono strumento espressivo o simbolico. Ma spesso, invece, le malattie dei personaggi restano segrete al loro stesso creatore, che se ne fa portatore inavvertitamente.
Materiale prezioso per coloro che di malati in carne e ossa ne hanno visitato tanti. E che adesso si lanciano nella sfida di fare una diagnosi senza interrogare il paziente, richiedere analisi del sangue o auscultare il torace. Ecco allora, per esempio, che sull’«Amorino dormiente» di Caravaggio, custodito a Palazzo Pitti, si è scatenata una diatriba scientifica: ha l’artrite reumatoide giovanile o è rachitico? E se il botticelliano «Ritratto di giovane» della National Gallery di Washington emana un’eleganza quasi femminea, di sicuro è malato di aracnodattilia, cioè ha le dita troppo lunghe e sottili, come le zampe di un ragno. La stessa patologia di cui soffre la Madonna del collo lungo del Parmigianino esposta agli Uffizi, antesignana delle donne di Modigliani. La quale, a scorrere il lavoro di Vito Franco, forse era affetta dalla sindrome di Marfan, un disturbo ereditario che colpisce le ossa, i legamenti, gli occhi, il sistema cardiovascolare.
Nella Scuola di Atene, il dipinto celeberrimo di Raffaello dei Musei Vaticani, il malato è Michelangelo, ritratto in basso a sinistra, seduto sulle scale, curvo, con le ginocchia gonfie e tumefatte.
«Sembrano indicare - dice Franco - un eccesso di acido urico, tipico di chi soffre di calcolosi renale. E d’altronde lui per mesi e mesi si nutrì solo di pane e vino, lavorando giorno e notte al suo capolavoro, la Cappella Sistina». E che dire del «Las Meninas» di Velazquez custodito al Prado? Ebbene, la famiglia di Filippo IV, oltre a essere una miniera di simboli e di raffigurazioni, è anche un bel catalogo di malattie: la piccola Margherita, al centro della scena, avrebbe la sindrome di Albright, una patologia genetica rara che si manifesta con la pubertà precoce, la bassa statura, il gozzo. E non se la passano meglio, sulla destra, Maribarbola e Nicolasito, affetti entrambi da nanismo.
Nella sala d’aspetto virtuale di Vito Franco c’è pure una sfilata di malattie e disfunzioni sessuali: è il caso di uno dei primi ermafroditi mai ritratti (Sant’Onofrio, in un affresco dell’ottavo secolo nella chiesa copta della Cappadocia) e dell’inquietante «Mujer Barbuda» di José de Ribera, dove un uomo con barbone nero e cappello porge il seno a un lattante.
Ci sono anche casi in cui l’iconodiagnosta riesce a visitare il suo paziente due volte, e a distanza di tempo: è il caso di Dick Ket che nel 1939 si ritrae con le dita a bacchetta di tamburo, segno di una grave patologia polmonare. «In un dipinto di sette anni prima - dice Franco - ha le dita meno sformate ma presenta un turgore anomalo delle vene del collo, segno della stessa sindrome ma in fase iniziale».
Una relazione, quella tra arte e malattia, che diventa centrale se il paziente è l’artista, se è lui a soffrire, se è lui a guardare e ritrarre il mondo con gli occhi alterati dal dolore: succede in Van Gogh, in Frida Kahlo, e pure in Toulouse Lautrec, figlio di cugini di primo grado, molto basso, con le orecchie a punta, il mento piccolo, le dita corte. Creatori di grandi opere. E di casi clinici complessi.
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