sabato 28 marzo 2020

Lavorare in Subintensiva al tempo del Covid19

Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. (La Peste, Albert Camus)


Se il cambiamento del pronto soccorso è stato progressivo e posticcio, quello della medicina d'urgenza del mio ospedale è stato rapido e definitivo.
Un giorno avevamo metà dei letti pieni di pazienti non-covid, il giorno successivo abbiamo avuto indicazioni di trasferirli in massa, quello ancora dopo avevamo gli operai a fare le modifiche.


Photo Courtesy of Fabio
Quando sono tornata per il primo turno di notte è stato un tuffo al cuore. Anche qui è sorto un muro dove non c'era, ma è intonacato e ha al centro una porta identica a tutte le altre con il cartello "accesso alla zona rossa". L'effetto è straniante come quello di certi sogni in cui sai benissimo dove sei e come dovrebbero essere le cose, ma quello che vedi è diverso dalla realtà.
Sono rimasti fuori dalla nuova porta due magazzini, la sala medici, lo spogliatoio medici e il bagno infermieri. Tutto il resto del reparto, compresa la cucina e i due studi, quello di segretaria e caposala e quello del primario, è stato svuotato e trasformato in stanze di degenza o in magazzini. In tutte le stanze è stato installato un circuito a pressione negativa, in breve significa che il ricambio d'aria dentro alle stanze è talmente rapido che quando si apre la porta l'aria entra sempre senza uscire mai e ciò garantisce un rischio minimo di fuoriuscita del virus. Inoltre sono state installate telecamere a infrarossi, per poter sorvegliare i pazienti anche con le porte chiuse, un interfono e sarebbero dovuti arrivare dei monitor per poter leggere i parametri vitali di tutti i pazienti da un'unica postazione pulita.

In terapia subintensiva vengono ricoverati i pazienti che hanno bisogno del ventilatore ma sono svegli. Pazienti che, cioè, vengono ventilati tramite maschere facciali o caschi. Queste procedure causano una importante aerosolizzazione (il virus viene sparato a distanza) e pertanto per assistere i pazienti servono le maschere filtranti e i camici impermeabili. 

A due giorni dall'inizio dei lavori il reparto è pronto, ma non ci sono maschere e camici a sufficienza per medici e infermieri. Rimaniamo fermi altri due giorni in attesa dei presidi, quando finalmente apriamo, sulla base della conta dei DPI (dispositivi di protezione individuale) ci danno indicazioni a ricoverare tre pazienti. Entro sera ne arrivano 7. In due giorni il reparto, ristrutturato per ospitare 10 pazienti, ne accoglie 14, uno in più dell'era pre-covid.
I monitoraggi che ci hanno promesso per i 6 letti rimanenti non arriveranno mai. Ci aggiustiamo recuperando qualche monitor portatile dal pronto e una colonnina parametri che abbiamo sempre avuto in reparto, ma un letto rimane completamente sguarnito. 

Le istruzioni iniziali sono tassative: non si può uscire e rientrare nelle stanze con i camici sporchi, non si può passare da una stanza all'altra con i camici sporchi, non si possono aprire le porte che per pochi secondi. Queste direttive durano meno di due turni: non reggono alla prova della penuria costante di mascherine.


Dal secondo giorno compare una riga per terra tracciata con lo scotch: la metà destra del corridoio è zona sporca: si può transitare da una stanza all'altra avanti e indietro con l'illusione di mantenere pulita l'altra metà. Le maniglie delle porte vengono disinfettate ogni 3 ore, tutto ciò che esce dalle stanze viene sanificato, un bagno è trasformato in locale svestizione.

Il mio primo turno nella subintensiva-Covid19 è una notte.

Mentre sono a casa ad aspettare di sapere dove e quando devo andare a lavorare, mi chiama una collega: "Siamo senza pile per i laringoscopi, se puoi valle a comprare e portarcene almeno 6 questa sera".
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Il laringoscopio è un attrezzo che si infila in gola ai pazienti addormentati per posizionare correttamente il tubo endotracheale. È costituito da un manico e da una lama d'acciaio. In cima c'è una luce che serve a illuminare la gola e guidare il posizionamento del tubo. Le pile scariche del laringoscopio sono il terrore di ogni anestesista... immaginatevi di avere un paziente addormentato e paralizzato e di dovergli cacciare un tubo in gola alla cieca mentre qualcuno vaga per il reparto alla ricerca di un altro laringoscopio o di pile nuove.
Ecco a noi oggi sono finite le pile di riserva e il magazzino non sa se e quando riuscirà a rifornirle. Trattandosi di un oggetto facilmente reperibile è più semplice e sicuro andare in ferramenta a comprarne una scorta che attendere novità dal magazzino. Sarà solo la prima delle tante pezze da mettere di questi tempi.

Il turno inizierebbe alle 22, ma mi chiamano prima: "Ci sono due ricoveri, vieni a darci una mano".
Percorro le strade deserte col mio motorino incrociando solo una pattuglia dei carabinieri e senza mai appoggiare i piedi per terra, un'unica tirata di 7 km.


Arrivo, recupero dal magazzino una tutina usa e getta pulita, mi cambio nello spogliatoio, cercando di passare indenne dalle scarpe (da riporre in apposita scarpiera) agli zoccoli (che stazionano su di un panno imbevuto di cloro). Anello, collana e orologio li ho lasciati a casa, altrimenti dovrei metterli e toglierli ogni volta che arrivo al lavoro. Mi lego i capelli (ho scelto un pessimo momento storico per farmeli crescere, ma tant'è) e mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica con la tecnica consigliata dall'OMS. Impacchetto il telefono con il cellophane: potrei lasciarlo fuori, ma mi serve per fotografare i documenti, quindi dopo attenta analisi ho scelto la pellicola per alimenti, che preserva il touch screen e la fotocamera e può essere buttato a fine turno, sollevandomi dall'incombenza di sanificare il telefono ogni volta.

Vado a recuperare una mascherina chirurgica, che devo tenermi cara per tutto il turno. Con questa tenuta posso stare nella sala medici/relax ed entrare nella zona rossa, a patto di mantenermi nella metà sinistra del corridoio ed entrare solo in medicheria o in magazzino.

Ho appena preso consegne che una paziente decide di disconnettersi il casco: qualcuno deve entrare per sistemarglielo, ma gli infermieri sono a fine turno e sprecheremmo del materiale per pochi minuti di utilizzo, così entro io.

Mi metto la cuffia di tessuto non tessuto (10 secondi)
Mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica (40 secondi)
Indosso il camice impermeabile chiudendolo dietro al collo e al fianco con un fiocco (30 secondi)
Mi metto la maschera filtrante (20 secondi)
Indosso il visor (5 secondi)
Mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica (40 secondi)
Metto i guanti della mia misura (15 secondi)
In ogni passo sono assistita da un infermiere che spunta la checklist e la firma al termine.

A questo punto faccio il mio ingresso trionfale nell'open space in cui alloggiano tutti e 6 i pazienti. Salvo la paziente del letto 4 dal soffocamento riconnettendo il casco al ventilatore, le spiego che anche se le manca il fiato è altamente sconsigliabile tentare di autorimuoversi il casco perché rischia di precipitare da una brutta sensazione di dispnea al soffocamento vero e proprio causato dal restare con la testa in un sacco di plastica dove non arriva aria.

Photo Courtesy of Giovanna
Sudo sotto il camice impermeabile e il visor. Farsi capire dai pazienti è una fatica: già normalmente per parlare con chi ha un casco bisogna urlare, se poi indossi anche una maschera e un visor è un'impresa. Compiutala, aspetto. Aspetto il cambio degli infermieri e il ricovero di un nuovo paziente che deve arrivare dal pronto soccorso. Corro su e giù a tacitare allarmi dei ventilatori, a sistemare caschi, a chiudere flebo, a riavviare motori di materassi antidecubito, a riposizionare saturimetri. A un certo punto non ho più niente da fare. Ma non posso uscire, dovrei rientrare per il ricovero e sprecherei del prezioso materiale. Non posso fare nulla, però, così bardata, a parte sedermi e aspettare. Dopo 40 minuti a fissare il vuoto giunge un infermiere a salvarmi. Iniziamo il giro letti, per sistemare per la notte un paziente alla volta. Mi colpisce quanto ci sia da fare e a quante cose noi medici non diamo peso, semplicemente perché ci pensa qualcun altro. Per dormire (o almeno provarci) il paziente deve essere ben sistemato nel letto, con le lenzuola che non facciano pieghe, con la coperta se la vuole, deve aver bevuto, essere stato rassicurato, le flebo non devono finire nel cuore della notte o suoneranno gli allarmi, i cateteri devono essere vuoti. Mille piccole premure che gli infermieri dispensano quotidianamente, mentre noi ci preoccupiamo di chiedere esami, cambiare terapie e visitare i pazienti.

Quando arriva il ricovero mi rendo conto di un altro problema al quale non sono abituata: nulla può uscire dalla stanza. Se il paziente entra con la cartella del pronto soccorso bisogna buttarla e ristamparla da capo, se entra senza devo visitarlo senza i dati precedenti. Devo ricordare a memoria parametri, ecografia e anamnesi, per poterli scrivere un'ora o anche tre dopo, quando uscirò dalla stanza. Sembra banale, e in effetti siamo abituati a ricordarci dettagli dei pazienti anche dopo molto tempo, ma quando hai una sola malattia da curare, tutte le storie si assomigliano. Mi aveva detto che aveva solo febbre o anche tosse? I sintomi saranno iniziati 7 o 10 giorni fa? E l'ecografia com'era? Era lui che aveva quell'addensamento basale o il suo vicino? E come avrò impostato il ventilatore?. Per la prima notte me la cavo con la memoria, anche perché il paziente è uno solo, ma a breve si renderanno necessarie altre strategie.

Dopo alcune ore passate dentro ho le vertigini, scoprirò poi che capita a molti, qualcuno lamenta invece cefalea. Sospettiamo che sia colpa delle mascherine che costringono a inalare più anidride carbonica del dovuto, ma potrebbe anche essere la fatica continua, il rumore, gli allarmi.
Finalmente, dopo quasi 4 ore, esco dalla stanza.
Rimuovo i guanti
Lavo le mani
Rimuovo il camice slegandolo di lato e accartocciandolo su se stesso toccandolo solo dall'interno
Lavo le mani
Rimuovo il visor toccandolo solo da dietro
Lavo le mani
Rimuovo la maschera (prima l'elastico inferiore)
Lavo le mani
Rimuovo la cuffia toccandola solo dall'interno
Lavo le mani
Rimetto la mascherina chirurgica 
Bevo mezzo litro d'acqua in un sorso solo
Vado a fare pipì
Riscrivo al pc tutto quello che ho fatto al nuovo malato ricoverato, chiedo gli esami, imposto la terapia, compilo la scheda di ingresso per la raccolta dati.
Muoio su una poltrona per circa un'ora.
Arriva il cambio, sospiratissimo.

Sempre nel pomeriggio la telefonata mi aveva avvisato: "La seconda cosa che devo dirti è che da oggi ci facciamo la doccia a fine turno, quindi portati un asciugamano e le ciabatte". Io, che di solito non faccio la doccia neanche in palestra, preferendo di gran lunga quella di casa mia, sono stranamente sollevata.
Non mi è piaciuto tornare a casa dall'ultimo turno e dovermi fiondare in bagno abbandonando i vestiti in ingresso. Non mi sono sentita protetta a mettere la giacca, il casco, i guanti, dopo aver visitato malati covid con l'esile protezione di un camicino usa e getta e una mascherina chirurgica.
Recupero il mio fedele accappatoio in microfibra e le ciabatte di plastica che mi hanno accompagnato nei peggiori ostelli del mondo e li infilo nello zaino, solo che non mi sto preparando a un viaggio in India, ma a un improbabile tour post-apocalittico, come quelli che ora organizzano al reattore nucleare di Chernobyl.


Il nostro spogliatoio si è trasformato in un bagno attrezzato: sono spuntati dei phon nettamente migliori di quello che ho a casa e sembra un po' di essere in piscina o alle terme... coda per la doccia a parte. Però questo clima un po' campeggio, un po' apocalisse ci sta rendendo tutti più uniti. Come dice una collega "Quando tutto questo sarà finito o saremo una grande famiglia o non ci potremo più vedere". Speriamo la prima.

Il resto del racconto e dei diari del reparto Covid sono disponibili qui

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